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La Penna degli Altri

Abbracci e cazzotti: storie mai raccontate del sottopassaggio simbolo del Magona

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ILTIRRENO.it Ed.Piombino-Elba (Stefano Tamburini) – Certi sguardi rivolti agli avversari erano come lame affilate, l’odore dell’olio canforato impastato con il sudore e la sinfonia delle scarpe bullonate sul cemento facevano il resto. E poi c’erano le voci, gli incitamenti che rimbombavano nelle orecchie degli altri. Per chi lo ha visto e per chi non c’era negli anni d’oro, val la pena di raccontarlo il sottopassaggio dello stadio Magona. Perché non è mai stato solo un sottopassaggio, quando le altre città e gli altri paesi avevano al massimo il campo sportivo, noi a Piombino abbiamo sempre avuto lo stadio.

E lo stadio cominciava ancor prima di arrivare a quel sottopassaggio, con i cancelli stile Comunale di Torino, Franchi di Firenze o Anfield di Liverpool, le biglietterie incastrate nel muro e il tornello umano dei controlli rapidi e impietosi.

Certo, era più piccolo di quei giganti ma era uno stadio e la scritta “Questo è il Magona” che è stata collocata da poco all’ingresso delle scale rimesse a nuovo è come se ci fosse sempre stata, perché era proprio in quel punto che certe partite si cominciavano a vincere o a perdere. Come a Liverpool, proprio come al cospetto di quella scritta “This is Anfield” che arriva prima del canto di “You’ll never walk alone”.

IL TEATRO DEI SOGNI

Quando lo stadio Magona era il teatro dei sogni quel rito era per pochi ma era come se fosse di tutti quelli che erano fuori e aspettavano di vedere le teste sbucare dal terreno di gioco. C’era la musica gracchiante degli altoparlanti a cui seguiva la lettura delle formazioni, c’erano i cori e gli striscioni, c’era l’inno stile anteguerra “Nerazzurro di Piombino, sempre avanti…”, c’era la tribuna verde all’inglese con sedie in lamiera. Lo stadio era qualcosa di animato, di vero: il Magona negli anni dello splendore viveva intorno a questo e non è nostalgia ricordarlo.

Oggi che quel sottopassaggio è stato ricostruito e anche “arredato” (come da felice definizione del collega Alessandro De Gregorio) quei muri ridipinti hanno cancellato le incrostazioni ma non i ricordi. E se quei muri potessero parlare ne avrebbero da raccontare. Storie belle di abbracci e di pacche sulle spalle, storie meno edificanti di risse e anche di quelle sane liti del dopo-partita che cominciavano con sonori vaffa e finivano qualche mezz’ora dopo davanti a un bicchiere di vino nel bar di fronte alla biglietteria. Il sottopassaggio era una sorta di linea di confine, marcava l’inizio e la fine di una guerra sportiva che era lunga più o meno un paio d’ore, i minuti del “prima”, la partita, l’intervallo e quel “dopo”, quando il rito poteva essere gioioso o burrascoso.

LA LEGGENDA

Quel sottopassaggio ha sentito passare i bulloni nobili delle scarpe del leggendario Grande Piombino che sconfisse la Roma il 18 novembre 1951. Prima e dopo anche quelli di tanti attori nerazzurri di un sol giorno o di tante domeniche fatte di sudore, fatiche e maglie da onorare. Era un sogno, per i giovani che avevano il loro teatro nel campo sussidiario, quello che nessuno ha mai chiamato così perché era “il marrone”, da qualche anno spazzato via per far posto a un parcheggio. E quando arrivava il momento di debuttare nel campo verde in tanti non dormivano la notte per la “prima volta” nel sottopassaggio. C’è chi racconta di essersi commosso, di aver tremato come una foglia in mezzo a tante altre foglie animate da altri ragazzi che si sentivano grandi anche se avevano ancora le spalle strette e le scarpe larghe comprate da genitori previdenti per andare oltre la crescita dei piedi. Tremavano prima nello scendere le scale, poi nel percorrere quel corridoio stretto e infine nel risalire a riveder la luce e scorgere la curva di fronte e la tribuna sulla sinistra.

IL “TERRORE” ALL’USCITA

Tutto sembrava più grande di quel che era. E poi, specie quando lo stadio era pieno, il campo era immenso, i passi sembravano così faticosi ancor prima di cominciare a correre, sentivi ogni parola che ti arrivava addosso. Se eri uno dei “nostri” percepivi la crescita del coraggio, una spinta magica; se eri uno degli “altri”, quella risalita faceva paura, eri accolto da un ruggito e ti sentivi come un domatore alle prime esperienze nella gabbia dei leoni. Anche negli anni più difficili, nei tornei chiusi sul filo della retrocessione, per il Piombino la disfatta era molto rara; magari erano stagioni di poche vittorie ma anche di saltuarie sconfitte. Il sottopassaggio pesava, come pesava uno stadio che quando andava male aveva almeno mille persone a guardare quelle teste che sbucavano, a far sentire il calore che non era solo sportivo, era sano orgoglio di una città che intorno a quello stadio e a quel sottopassaggio viveva domeniche speciali, anche con cinque o seimila spettatori.

SE QUEI MURI POTESSERO PARLARE…

E poi c’era il “dopo”, quando tutto finiva e l’arbitro aspettava che tutti fossero usciti prima di imboccare per ultimo quelle scale e chiudere il sipario del teatro dei sogni. Se la partita era stata turbolenta e c’era da regolare qualche conto in sospeso c’era sempre qualcuno che si attardava per permettere agli altri di far volare, indisturbato e impunibile, qualche pugno o qualche schiaffo proibito. Oggi si direbbe che non si fa, allora era un rito inconfessabile, quasi tollerato: il calcio era molto più tribale di quello di oggi. Durante l’ultima rimpatriata con i vecchi giocatori alcuni di loro lo raccontavano con orgoglio unito da un «oggi non sarebbe il caso, ma allora…» detto con un sorriso a mezze labbra. Un sorriso parlante.

Riaprire quel sottopassaggio non vuol dire tentare di ripetere quelle pagine. Vuol dire riaprire un pizzico di storia del pallone nerazzurro. La storia è importante, prima di tutto quella che si dovrebbe imparare sui banchi di scuola ma anche quella che si fa rivivere con i simboli e con la tradizione, per non disperdere i ricordi di chi ha fatto in modo che oggi siano altri a portare avanti quel compito. Il rumore delle ruote di ferro sui binari del “tappo” del sottopassaggio quando finiva la musica dell’inno, quando c’era l’attesa per il calcio d’inizio, era una specie di segnale nello stadio che per un attimo si era fatto silente senza che nessuno lo avesse chiesto. Era l’inizio della lotta.

LA TRADIZIONE DA NON DISPERDERE

Sì, il cartello “Questo è il Magona” vuol raccontare tutto questo a chi scende quelle scale per cominciare a giocare. E, pazienza se quando si risalgono e gli occhi cominciano a vedere l’erba, lo scenario non è più il solito di allora. Lo stadio non ha più la tribuna, il segno degli anni è oltre gli acciacchi della struttura. L’anima no, l’anima è sempre quella di quando i tacchetti erano sotto le scarpe gloriose dei capitani del Piombino e della Roma, Enrico Zucchinali e Armando Tre Re con l’arbitro Giorgio Berardi, il Lo Bello dell’epoca. Di quando da lì sono usciti Ferruccio Valcareggi e tutti quelli che dopo hanno fatto la piccola grande storia del calcio nerazzurro insieme con gli avversari e con tutti gli ospiti illustri di Juventus, Torino, Sampdoria, Milan, Fiorentina che hanno giocato epiche amichevoli di fronte a quelli che Sandro Ciotti in radiocronaca avrebbe definito “spalti gremiti in ogni ordine di posti”.

Questo era, questo è il Magona.

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