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La Penna degli Altri

Meroni, la farfalla del Torino

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TUTTOSPORT.COM – Ha il passo leggero e i pensieri seri di chi vive in anticipo sui tempi. Gigi Meroni è l’asso del Torino che illumina di immenso il Comunale. Il 15 ottobre 1967, c’è di fronte la Sampdoria di Fulvio Bernardini che ha avvisato i suoi di tener d’occhio quel gran genio con le spalle strette e la maglia numero 7. I compagni lo conservano e lo proteggono, come una reliquia. Fulvio Bernardini, l’allenatore della Samp. Giorgio Garbarini, terzino poi soprannominato Custer, e se ti chiamano come un generale non è certo per scarsezza di spirito battagliero, non lo prende mai. Dopo il vantaggio di Combin, Meroni inizia il suo spettacolo su un passaggio di Agroppi, che debutta in Serie A, ma il tiro è alto. La mira affinata all’oratorio San Bartolomeo di Como per una volta lo tradisce. È in quel piccolo campetto che la farfalla granata, titolo azzeccatissimo del libro poetico che Nando Dalla Chiesa gli ha dedicato, inizia a far intuire magnifiche sorti e progressive. Lo nota l’Inter, che vorrebbe portarlo a Milano a quindici anni. Mamma Rosa però non se la sente. Così la trafila inizia al Como, che lo fa debuttare in B, per poi passare al Genoa, la squadra più antica d’Italia. All’inizio Renato Gei lo tiene spesso in panchina, ma in allenamento Meroni incanta. Un posto in squadra non glielo toglie più nessuno. Il primo gol in A, al Lanerossi Vicenza, vale la salvezza del Genoa nella stagione 1962-63. L’arrivo sulla panchina di Benjamin Santos, per tutti Beniamino, accelera i tempi del suo volo. Santos conosce Torino, ha giocato da centrocampista nei granata dopo la tragedia di Superga. L’argentino, che sarebbe morto in un incidente stradale con la moglie alla guida vicino La Coruna, riconosce il talento e lo valorizza come merita. Meroni arriva fino alla nazionale B, che Galluzzi allena con la supervisione di Edmondo Fabbri, commissario tecnico della Nazionale maggiore. Fabbri gli impone di tagliarsi i capelli. Quella volta Meroni accetta. Due anni dopo, di fronte alla stessa domanda, rifiuterà. Rinuncerà così a un’amichevole contro la Polonia. Già dalla vigilia non si era parlato che di lui, atterrato a Varsavia con gli occhiali scuri, la barba lunga, le basette, la camicia Oxford e la cravatta senza nodo.

L’UOMO E IL CALCIATORE. Nel 1964 Orfeo Pianelli, primo presidente a ragionare da manager e di fatto suo secondo padre, lo porta al Torino. Meroni, scrivono Antonio Papa e Guido Panico nella “Storia sociale del calcio italiano”, è “il primo e per molti anni l’unico giocatore di calcio italiano ad assumere comportamenti omogenei a quelli di moltissimi suoi coetanei”. L’immagine del calciatore bohémien, che porta la gallina al guinzaglio, si disegna abiti sgargianti, dipinge e dà scandalo per la relazione con Cristiana Uderstadt, moglie divorziata di un aiuto regista di Vittorio De Sica, che le aveva chiesto di sposarla durante le riprese del film Boccaccio 70. Meroni però ha solo l’apparenza del contestatore. Sotto l’aria da capellone c’è un professionista esemplare, che chiede la libertà di essere come è, la libertà di pensare fuori dagli schemi, ma rispetta le regole del sistema, non manca mai agli allenamenti, non si concede la vita notturna di molti calciatori. Intanto, al Comunale, la Sampdoria pareggia con Francesconi, ma il Toro torna avanti con Nestor Combin, la Folgore, che a sentire il nome di Meroni si commuove ancora. Combin è in giornata di grazia, ma Bob Vieri non è da meno. Il papà di Bobo, centravanti dalla vita poco disciplinata, firma il 2-2. Tenta una magia, Meroni, un pallonetto al volo che finisce appena alto. Poco più di un anno prima, proprio al Comunale, aveva segnato un gol-capolavoro all’Argentina, a giugno, e si era preso di forza la maglia numero 7 della nazionale al Mondiale d’Inghilterra del 1966. Il resto è storia. Gioca con la Russia, non con la Corea ma per quella disfatta paga per tutti. È il bersaglio più facile, nel conformismo di un’Italia che presto inizierà a conoscere un cambio radicale di costumi.Il genio di Meroni si era acceso ancora, il 12 marzo di quel 1967, con uno dei gol più belli mai visti su un campo di Serie A: scarto secco su Giacinto Facchetti, stop di destro e ispirazione eccentrica che diventa traiettoria impossibile. In quel volo a planare del pallone sotto l’incrocio c’è il senso per la meraviglia che si inquadra nelle categorie. Non segna, però, contro la Sampdoria, anche se il Torino vince 4-2.

LA TRAGEDIA. La sera di quel 15 ottobre è una di quelle sere che sembrano scritte da uno sceneggiatore con un gusto crudele per i simbolismi e il fatalismo. Meroni, stesso cognome del pilota dell’aereo che si schiantò a Superga, l’icona granata che scatenò una campagna anti-Juve perfino sulla “Stampa” quando Agnelli ha tentato di acquistarlo con un’offerta di quelle quasi impossibili da rifiutare (750 milioni in cinque anni), dopo cena chiede a Combin di andare a prendere un caffè con lui. Combin, che ha segnato tre gol alla Sampdoria, è stanco, rifiuta e si allontana. Meroni rimane con Poletti, il suo più grande amico in squadra. Di fronte casa sua, una mansarda in Corso Vittorio, si accorge che non ha le chiavi per rientrare. Cristiana è a cena, probabilmente ha dimenticato di lasciarle in portineria. I due vanno al bar Zambon, dall’altro lato della strada, per telefonarle. È una sera trafficata, i due escono dal bar, attraversano e si fermano sulla linea di mezzeria. È una sera trafficata. Passa una Fiat 124. Al volante c’è un ragazzo cresciuto col poster di Meroni in camera, che come lui si pettina, che vorrebbe imitare il suo idolo, «un simbolo di estri bizzarri e libertà sociali in un paese di quasi tutti conformisti sornioni» aveva detto Gianni Brera. Quel ragazzo ha la patente da meno di due anni. È andato a prendere un amico, Giorgio, figlio del giudice Mortarino che avrebbe seguito la stessa carriera. Stanno tornando a casa, lontana non più di 200 metri. Supera una macchina, senza invadere la corsia, ma intanto dalla parte opposta arriva un’altra auto. Meroni fa un passo indietro, la Fiat 124 lo travolge e lo sbalza su una Lancia Appia. Il ragazzo al volante della Fiat 124 è figlio del primario di neuropsichiatria al Mauriziano, l’ospedale dove Meroni morirà. Avrà la patente sospesa, sarà condannato a sei mesi con la condizionale. Trentatré anni dopo, nel 2000, quel ragazzo diventerà presidente del Torino. Si chiama Attilio Romero, e chiuderà la sua esperienza con il fallimento granata del 2005. Al funerale sfileranno tutti, la settimana dopo nel derby contro la Juventus Combin segnerà tre gol. Il 4-0 lo chiude un esordiente, Carelli, che gioca con la maglia numero 7. È un trionfo che nessuno ha voglia di festeggiare. Una vittoria fra le lacrime di un dolore da sfogare, perché “i belli muoiono giovani” come diceva Charles Bukowski. E nessuno che ti spieghi come mai.

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