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La Penna degli Altri

E la squadra sparì dal cielo sopra Torino

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IL SOLE 24 ORE (Maria Luisa Colledani) – Un indovino gli disse. Anzi, una zingara gli tracciò il destino. Quella donna disse ad Aldo Ballarin, statuario terzino destro del Grande Torino, che sarebbe morto giovane in un incidente aereo. La zingara girovagava nelle vie di una Trieste catapultata nella lotta etnica e politica che si trascinò ben oltre la seconda guerra mondiale e le sue parole diventano storia il 4 maggio 1949, alle 17,03 del pomeriggio. Torino è plumbea, la pioggia è un muro e il trimotore Fiat G-212, di rientro da Lisbona dove i granata hanno disputato un’amichevole contro il Benfica, si schianta contro la Basilica di Superga. Muoiono tutti i 31 passeggeri a bordo: 18 sono gli atleti del Torino, poi ci sono tecnici, dirigenti, giornalisti e membri dell’equipaggio. Finisce la storia sportiva, inizia il mito. Il calcio si fa eternità. Il primo a scriverlo è Indro Montanelli sul Corriere della Sera: «Gli eroi sono sempre immortali agli occhi di chi in essi crede. E così i ragazzi crederanno che il Torino non è morto: è soltanto in trasferta». La radio è il collante del dolore degli italiani perché quella squadra era l’Italia nuova, stremata dalla guerra e dalla fame, vilipesa e sconfitta che cercava la luce. In quegli anni, sul fondale di macerie, lutti e speranze, Coppi e Bartali, il Grande Torino, Ascari e Nuvolari sono l’Italia tutta che vuole ritrovare la via. Per questo, dopo 70 anni, il Torino degli invincibili, cinque scudetti fra 1943 e 1949 (nel ’44 e nel ’45 il campionato non si disputò), è un bene nazionale e non solo perché la formazione tipo – Bacigalupo, Ballarin, Maroso, Grezar, Rigamonti, Castigliano, Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola – è una poesia da declamare tutta d’un fiato. Aldo Ballarin, nato nel 1922 a Chioggia, arriva al Torino nel 1945 dalla Triestina. Ferruccio Novo, il presidente istrionico e manageriale che dal 1942 sta costruendo la sua creatura perfetta garantendo agli atleti un posto di lavoro alla Fiat per sottrarli alla guerra, lo compra per la cifra folle di 1 milione di lire (nel ’42 aveva speso 1,5 milioni di lire per Valentino Mazzola ed Ezio Loik insieme). Non delude Ballarin: “aveva uno scatto possente, un tiro notevole e soprattutto una tecnica ammirevole in ogni frangente”, scrive Gianni Brera. Novo lo stima, lo coccola, segna il nome – come quello di tutti i granata – sul suo quadernetto rosso dove annota i contratti quasi in un patto d’onore fra galantuomini. Certo, per il capitano Mazzola premi doppi, ma ingaggi di tutto rispetto anche per gli altri: il solo premio scudetto valeva 200 mila lire (quando un operaio della Fiat guadagnava 30 mila lire al mese e il pane costava 100 lire al chilo e un biglietto del tram 20). Anche per questo, e per la coesione di quel gruppo irripetibile, Aldo cerca di far arrivare al Torino il fratello Dino, portiere, di un anno più giovane. Novo si convince nel 1947 sbarca a Torino Dino, è il terzo portiere “sembrava quasi un fanciullo e dal suo viso traspariva una bontà indescrivibile”, ricordano i cronisti dell’epoca. Tanto impegno, ma nessuna partita disputata in serie A per «l’angelo bianco». Domenica 1° maggio 1949 si parte per Lisbona, per l’amichevole promessa all’amico Francisco Ferreira dal capitano Mazzola, il più forte, il Tulen, barattolo come il contenitore di latta con il quale affinava la tecnica prendendolo a calci, di destro o di sinistro, di collo o di esterno. Dino, da terzo portiere, non doveva partire ma Aldo persuade Novo. I fratelli non torneranno a casa ma la loro storia rivive nel ricco museo – per ora online – museoballarinchioggia.it, voluto dalla nipote di Dino, Nicoletta Perini Bovolenta, col «sogno di trovare uno spazio fisico a Chioggia in cui allestire il materiale di mio nonno e di suo fratello». Dino non doveva proprio esserci su quel volo e il fato ha svoltato bruscamente. La vita come una beffarda sfida a ingarbugliare i destini. Sull’aereo in partenza da Milano c’è anche un altro Ballarin, il fratello Iginio ma un doganiere lo fa scendere perché il passaporto non è in regola. Ossola voleva restare a casa perché aveva appena scoperto che la moglie era incinta, ma parte e muore. Tanti gli infortunati che salgono sul volo comunque Aldo Ballarin, Maroso, Ossola, il febbricitante Mazzola. Sauro Tomà, scomparso un anno fa, è l’unico calciatore granata superstite; il giornalista Nicolò Carosio è “salvato” dalla cresima del figlio; l’accompagnatore Andrea Bonaiuti, per paura dell’aereo, aveva raggiunto Lisbona in treno ma per la stanchezza era tornato in aereo. Insomma, la tragedia di Superga è la storia di tante sliding doors. Lassù, sulla collina di Torino, se ne è andato un gruppo immortale, di eroi giovani e belli, e belli per sempre. Che uniscono ancora dopo 70 anni perché la memoria ha un valore etico. E forse, ancor più che memoria, è qualcosa a metà fra il ricordo e il sogno. Tu chiamale se vuoi rêveries.

Il Sole 24 Ore, 28 aprile 2019

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