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Cagliari ’70… “quello Scudetto è il racconto commosso di mio padre”

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GLIEROIDELCALCIO.COM (Angelo Deiana) – Per me, classe 1991, lo Scudetto del Cagliari del ‘69-70 è il racconto commosso di mio padre. E di un popolo intero. Ho iniziato a tifare per i rossoblu da subito, non ho ricordi di altre passioni calcistiche, di tentennamenti lungo il percorso, nemmeno quando eravamo in serie B. E non ho vacillato neanche quando tutti i compagnetti di scuola, dalle elementari alle medie, mi guardavano come un alieno quando ai loro Juve, Milan, Inter e Roma rispondevo: Cagliari.

E perché? La domanda era sempre questa, sempre la stessa. Non c’era una ragione precisa, me ne ero innamorato, come ci si innamora di qualcuno. La passione me l’aveva trasmessa mio padre, certo. E poi il rapporto stretto e fortissimo con la nostra terra, la Sardegna, che per varie epiche familiari è rimasta lontana ma sempre vicinissima.

E quindi a scuola mi toccava sorbire le esuberanze di chi vantava in squadra gente come Totti, Zidane, Ronaldo… E io me ne stavo lì, a tenermi stretto Lulù Oliveira o Patrick Mboma. Mio padre mi raccontava di Gigi Riva e di quella banda di eroi che avevano compiuto un’impresa più unica che rara, un colpo al sistema, al potere e alla storia del pallone nostrano. Un atto di ribellione, un’interruzione magica del flusso prestabilito degli eventi. Una costante impazzita in maglietta e pantaloncini. E io ascoltavo le sue parole, mi immaginavo questo Riva come un eroe, a metà tra Achille e Goku, il protagonista di Dragon Ball di cui divoravo puntate e puntate. Mi immaginavo Gigi Riva che diventava Super Saiyan e con una forza devastante superava difensori e trafiggeva portieri bucando la rete della porta con i suoi tiri imparabili. Oggi, invece, da ragazzo un po’ più cresciuto, Riva nel mio immaginario non è più un incrocio tra Achille e Goku, ma un uomo. Un uomo vero, nell’accezione più sublime del termine.

Ma nel mio Cagliari, quello della primissima infanzia, non c’era un Gigi Riva a cui aggrapparsi, un condottiero di cui innamorarsi. E di conseguenza non c’era nemmeno la speranza di un ritorno allo Scudetto. Capii presto che io, a differenza di mio padre, non avrei potuto rivivere quella gioia indescrivibile. Fino a quando di un giocatore mi innamorai davvero, e devo dire che ci avevo visto lungo: era un giovanissimo e promettente Daniele Conti, quello che poi per me è diventato “il mio capitano”. La storia recente ci ha insegnato che, in effetti, anche Conti è una pagina irripetibile della nostra storia calcistica, non solo a tinte rossoblu. Non è riuscito a riportare a Cagliari lo Scudetto, certo, ma quello che ci ha dato in termini di attaccamento alla maglia e al nostro popolo ha un valore altrettanto inestimabile. Ecco dunque che ai vari Totti, Zanetti o Del Piero ora anche io potevo rispondere, con fierezza, Daniele Conti.

Ma di Scudetto, nemmeno l’ombra. Resta però il ricordo. Il ricordo che mi ha trasmesso mio padre, e il ricordo che hanno ben impresso almeno due generazioni. Il filosofo Scopigno, la grazia di Greatti, la potenza di Nenè (al quale ho reso omaggio con un romanzo dal titolo “A Diosa. La leggenda di Nenè”), i banditi arrestati durante l’ultima di campionato ai quali i poliziotti concedono di restare a vedere la fine della partita. Aneddoti e storie incredibili di un tempo che non c’è più. Di uomini, donne e valori che restano cucite su quei quattro mori e sul cuore di ognuno di noi.

E vuoi mettere stare lì a parlare con quelli della Juve che nemmeno si ricordano più le date, talmente tanti ne hanno vinti… E poi che valore hanno quegli Scudetti là? Hanno riscattato Torino o il Piemonte? No, perché erano e sono sempre stati loro i ricchi e potenti padroni del Nord. Gli Scudetti della Juve o dell’Inter hanno rappresentato il trionfo di una Terra, di un popolo? No. Sono sempre stati “semplici” eventi sportivi. Lo Scudetto del Cagliari, invece, è stato ANCHE un evento sportivo. Ma più di tutto ha rappresentato il riscatto di un popolo, di una Terra di un’isola che usciva dal sottosuolo e incominciava a sbocciare come un fiore.

Ne abbiamo vinto uno solo, sì. E probabilmente resterà anche l’unico. Ma è anche per questo che oggi, 12 aprile 2020, a distanza di 50 anni, quell’impresa la celebrerà l’Italia intera. E non solo la Sardegna o Cagliari. Perché lo Scudetto del ’69-70 è un racconto epico, è letteratura, è storia. È patrimonio nazionale.

Cosa mi resta di quello Scudetto? Tutto. Anche se non l’ho vissuto, anche se non ero all’Amsicora quel giorno o lungo via Roma a Cagliari. Eppure, è come se ci fossi anche io. È come se ad abbracciare i nostri eroi ci fossi anche io. E c’è un’altra cosa di cui si può essere certi: quella formazione, che suonava come una poesia, la ricordano tutti. Per noi è l’Infinito di Leopardi, l’Ave Maria o la tabellina del 2. Una cantilena, una ninnananna, un inno alla vita che suonava, e suona, ancora così:

Albertosi, Martiradonna, Zignoli, Cera, Niccolai, Tomasini, Domenghini, Nenè, Gori, Greatti, Riva.

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Vive a Viterbo. È laureato in Filologia moderna e insegna materie letterarie. È responsabile del programma di Caffeina Festival e dell’Emporio Letterario di Pienza, nonché organizzatore e membro di giuria del Certame nazionale Cardarelliano e del Premio Letterario Corrado Alvaro-Libero Bigiaretti. È responsabile della comunicazione e della redazione della rivista letteraria Passaporto Nansen. Ha frequentato la scuola di scrittura Molly Bloom.

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