10 luglio 1930 - Nasce Giorgio Ghezzi, il “Kamikaze” di Romagna. Dagli esordi col Rimini, al volo tra le stelle del calcio - Gli Eroi del Calcio
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10 luglio 1930 – Nasce Giorgio Ghezzi, il “Kamikaze” di Romagna. Dagli esordi col Rimini, al volo tra le stelle del calcio

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GLIEROIDELCALCIO.COM (Francesco Fanini) – Quella di Giorgio Ghezzi da Cesenatico è la storia di un ragazzo che, partito dalla provincia romagnola, ha saputo spiccare il volo con talento, tenacia e personalità verso le più alte vette del firmamento calcistico italiano. Nato il 10 luglio 1930 da mamma Ernestina, maestra elementare, e da papà Spartaco di origini brianzole, titolare di un’autorimessa, il giovane Giorgio – come avrà poi modo di raccontare – non nasce portiere, ma lo diventa a seguito delle raccomandazioni della madre che, vedendolo rientrare sudato fradicio e con le scarpe sporche e consumate dopo le sfide in cortile coi compagni di gioco, lo esorta a prendere posizione tra i pali mantenendo su quella ipotetica linea bianca disegnata ai margini della contesa una compostezza e un aspetto più consoni a quello che avrebbe dovuto essere uno studente modello. I progetti della famiglia prevedono infatti per lui un brillante curriculum scolastico da affrontare con profitto presso l’Istituto Agrario di Cesena e, nel ’46, la nomina del padre a sindaco della cittadina affacciata sul porto leonardesco non fa che intensificare questa sua responsabilità. Ma all’istinto non si comanda e il desiderio di primeggiare sui campetti del borgo natio lo porta a mettersi in evidenza tra i pali e, ancor sedicenne, ad essere chiamato a difendere i colori dell’U.S. Cesenatico in Prima Divisione Emiliana. Le sue prestazioni sono eccellenti e tanto basta per attirare le attenzioni della vicina Rimini Calcio, allora militante nel campionato di Serie C Interregionale, che gli propone un contratto per la stagione 1947/48 vincendo le resistenze della famiglia, ferma sul proposito di fargli portare a termine regolarmente il ciclo di studi. Giorgio non demorde, ha carisma, forza di volontà e la mentalità giusta per dividersi tra campo e ore di lezione, facendo la spola tutta la settimana tra aula, sede di allenamenti e casa, seguendo le tracce di un destino già segnato.

Con 396 bombardamenti aerei, navali e terrestri subiti e l’82% delle proprie costruzioni lesionate in maniera grave o irrecuperabile, Rimini usciva drammaticamente dal secondo conflitto mondiale, presentandosi come un enorme cumulo di rovine e di devastazioni. Così la descrive un giovane Sergio Zavoli: “…Rimini era alta un metro e venti… gli sfollati continuavano a rientrare in città scavalcando montagne di macerie, non si capiva se sotto c’era o no la strada di casa, si inciampava nei ricordi…”  Il sacrificio immane pagato in termini di distruzione e di perdite lascia però via, via il passo ad una progressiva e laboriosa opera di ricostruzione e la città, cui viene in seguito conferito con Decreto del Presidente della Repubblica del 16/01/1961 il patrio riconoscimento della Medaglia d’Oro al valore civile, diventa fiero simbolo di riscatto. Fare sport in un contesto ambientale ed emotivo quale quello dell’immediato dopoguerra equivale a mettersi alle spalle i drammi del passato e – dopo un biennio di sosta forzata dal ’43 al ’45 – dare continuità ad un’attività agonistica che nelle ultime stagioni aveva visto la locale squadra di calcio militare oramai stabilmente in terza serie. Stringersi attorno ad un progetto, ad un’idea di rinascita, in quegli anni duri rappresenta pertanto un modo per sentirsi vivi e per sperare in un futuro migliore e, come per incanto, nella stagione 1947/48 la compagine biancorossa militante nella Serie C/Centro – girone M (torneo a 96 squadre suddivise in sei gironi da 16) si erge esattamente a fiero simbolo di aggregazione di un’intera comunità sportiva e sociale.

Ghezzi nel Rimini 1947/48

Quel Rimini, sostenuto in maniera appassionata dalla sua gente, compie infatti l’impresa passata alle cronache come “l’anno del campionato”, aggiudicandosi per la prima volta nella storia del Club la vittoria assoluta di un torneo di C al termine di un elettrizzante arrivo al fotofinish coi rivali di sempre del Cesena sovrastati di un solo punto. Successo tanto esaltante, quanto platonico, reso purtroppo vano ai fini del salto nella categoria superiore da un disegno di riforma dell’intera “terza serie”, fortemente voluto dal presidente federale Ottorino Barassi, volto a riportare la Serie B a girone unico e a ridurre la C Nazionale a tre gironi e 60 squadre, cosa che di fatto congela proprio in quella occasione le promozioni tra i cadetti. I nomi dell’undici allenato dal veronese Giovanni Chiecchi vengono irradiati nell’etere come un melodioso scioglilingua da Zavoli, giornalista alle prime armi, attraverso pioneristiche radiocronache in presa diretta diffuse per tutto il centro storico dalla “Publiphono” del signor Renato De Donato, maresciallo dell’Aeronautica ed esperto di elettronica, con tanto di sponsorizzazione offerta dal Bar Dovesi e dalla sua “Cioccopanna”. Ghezzi parte come dodicesimo, contendendosi il posto con la gloria locale Carlo Cicchetti, detto “E’ cardinèl”, fino al buon esordio di Senigallia salutato da una brillante vittoria esterna per 4-1, in virtù del quale passa dopo pochissimi mesi da riserva a titolare. Posto consolidato l’anno successivo grazie all’incontro col nuovo allenatore e maestro Guido Masetti, detto “Er saracinesca”, glorioso numero uno della Roma scudettata ed ex-nazionale, che vede nel giovane portiere la stoffa del campione e, dopo un totale di 44 presenze tra il 1947 e il 1949 col Rimini, ne avvia l’ascesa verso una carriera che lo laurea successivamente come primo ex biancorosso approdato in azzurro. Due stagioni in B col Modena sono il trampolino di lancio verso la massima serie, raggiunta nel 51/52 grazie alla firma con l’Inter che lo preleva dai “Canarini” per la cifra di ventiquattro milioni. Il sogno di indossare la maglia della propria squadra del cuore si realizza e lo spinge anche in questo caso a vincere la concorrenza del compagno di reparto, Livio Puccioni, anche se l’allenatore nerazzurro Aldo Olivieri (a sua volta portiere, campione del mondo nel 1938 con la Nazionale italiana) sembra prediligere una salomonica, quanto destabilizzante alternanza tra i pali a seconda dei risultati ottenuti. Di riflesso la prima tra i grandi si rivela per Ghezzi una stagione dal rendimento altalenante e, per un emotivo naturale come lui, fonte di amarezze e preoccupazioni in ottica riconferma. L’anno successivo, al contrario, l’avvento in panchina di Alfredo Foni – ex terzino della Juve e della Nazionale – con l’introduzione di un nuovo modulo, poco redditizio dal punto di vista dello spettacolo ma in grado di conferire solidità e tenuta alla manovra, e di una maggiore definizione delle gerarchie, lo mette nelle condizioni di esprimersi con sicurezza e continuità di rendimento e di diventare a livello statistico recordman della squadra per presenze in campionato (34), portiere meno perforato del torneo (24 reti subite), nonché numero uno più giovane della Serie A. Anche grazie alle prestazioni del ragazzo di Cesenatico, al termine di quel torneo 1952/53 l’Internazionale a distanza di tredici, lunghi anni torna a cucirsi lo Scudetto sul petto, per la sesta volta nella sua storia. È il primo di due successi di fila, perché anche l’anno seguente i nerazzurri si confermano Campioni d’Italia dopo un combattuto testa a testa con la Juventus. È anche la stagione della svolta per Ghezzi, che balza definitivamente agli onori delle cronache per il suo stile di gioco atletico e spericolato; un marchio di fabbrica indelebile che gli vale il soprannome di “Kamikaze”, un autentico guerriero che fa di uscita a contrasto e difesa estrema dello spazio le sue caratteristiche peculiari, specialità che lo rendono probabilmente il primo portiere “moderno”.

Giorgio Ghezzi con la maglia dell’Inter tra il 1953 e il 1955 Foto Wikipedia

Quella di Ghezzi è una vera e propria evoluzione programmata, dettata sia da reali necessità di gioco dovute ad un cambio tattico introdotto da Foni, più spregiudicato, che porta al superamento di una visione “catenacciara” e implica maggior copertura “di sacrificio” in fase difensiva in primis da parte del portiere, sia da una visione del ruolo del tutto personale che lo induce a considerare l’estremo difensore come un ginnasta dedito a curare maggiormente la propria preparazione atletica e la padronanza fisica di se stesso più che l’allenamento col pallone. Nella Milano dell’epoca, simbolo di fama e di spettacolo, la sua popolarità sportiva va di pari passo con quella conquistata fuori dal campo e le cronache mondane cominciano ad occuparsi di lui anche come personaggio pubblico, dotato oltre che di bravura anche di profilo fotogenico e grande appeal per il folto seguito di ammiratrici. È questo anche il periodo della sua prima convocazione in Nazionale, col beneaugurante debutto nella vittoriosa amichevole di Parigi contro la Francia, superata per 3-1 nell’aprile del ’54. Sulla ruota azzurra non escono tuttavia in seguito numeri fortunati e le sue presenze si fermano a 6, comprese le 2 apparizioni nel mondiale svizzero del 1954. Dopo sette campionati con l’Inter, nel 1957/58 la sua parabola milanese-nerazzurra si esaurisce, c’è chi sostiene per divergenze “sindacali” con la dirigenza: un romagnolo con tendenze di sinistra che, come il padre, si cimenterà in futuro anche in una breve carriera politica a livello locale era considerato una presenza scomoda e polemica all’interno dello spogliatoio. La parentesi di un anno nel Genoa, squadra che guiderà dalla panchina nel ’66 una volta intrapresa la fugace carriera di allenatore, sale alla ribalta forse più per le “paparazzate” imbastite ad arte dai media e gli incroci col collega pari ruolo Lorenzo Buffon, rivale non solo in campo ma anche sui rotocalchi rosa, in virtù di una tenzone sentimentale che vede al centro la celebre valletta televisiva Edy Campagnoli. Dualismo che curiosamente la stagione successiva porta ad uno scambio di maglie tra entrambi i protagonisti (con lo stesso ex milanista Buffon in transito a Genova, ma diretto poi all’Inter) e quindi ad un pronto ritorno di Ghezzi a Milano, questa volta sulla sponda rossonera dei Navigli, per prender parte dal ’59 al ’65 a quello che sarà uno dei cicli più vincenti del “Diavolo” che, con l’avvento alla guida tecnica di Nereo Rocco e di campionissimi di levatura mondiale giungerà alla conquista dell’ottavo titolo nazionale nel 1961/62 e della mitica Coppa dei Campioni alzata per la prima volta al cielo da una squadra italiana al termine della sfida vinta per 2-1 contro il Benfica di Eusebio a Wembley il 22 maggio 1963. Dopo venti anni di calcio giocato, 341 presenze in Serie A e 62 in B, giunge il fatidico momento dell’addio all’attività agonistica e del ritorno alla terra d’origine che lo aveva visto dar spettacolo tra i legni – “ragazzino dalle elevazioni impareggiabili e dalle qualità fisiche e mentali per diventare un campione di successo”, come lo definì il conterraneo Azeglio Vicini – partendo dalla Rimini e dai campi polverosi di terza serie del primo dopoguerra.

Ma Giorgio Ghezzi è uomo concreto e di vedute lungimiranti, tormentato com’è dall’idea di trovarsi a fine carriera su un binario morto, punto di non ritorno incontrato già prima di lui da tanti calciatori sul viale del tramonto. Per Ghezzi un buon portiere per essere considerato tale deve possedere in sé, innata, la capacità di “prevedere” non solo le azioni dell’attaccante più pericoloso anticipandone i tempi in travolgente e coraggiosa uscita acrobatica, ma anche il futuro oltre il calcio. Lo spirito imprenditoriale tipico della gente di Romagna lo ha portato sin dai tempi della militanza nell’Inter ad investire i suoi proventi nel settore dell’industria turistica, posando le prime pietre di quello che sarebbe diventato negli anni del cosiddetto “miracolo economico italiano” uno degli emblemi della Cesenatico balneare e dell’intera Riviera adriatica, l’Hotel Internazionale (in ossequio alla squadra che lo ha lanciato nel grande calcio), col successivo avviamento dell’annesso night-club, il famoso “Peccato veniale” – nome proposto dall’amico Dario Fo – che si contraddistingue sin da subito come uno dei luoghi simbolo della vacanza e della vita mondana negli anni ’60, nonché teatro di esibizioni e di incontro di artisti, comici e cabarettisti di primissimo piano come Teo Teocoli, Cochi e Renato, Paolo Villaggio, Gino Bramieri, Walter Chiari, Ugo Tognazzi, Enzo Jannacci, Giorgio Gaber e altri. Il volo del “Kamikaze” si interrompe improvvisamente nella notte del 12 dicembre 1990 a causa di un attacco cardiaco, lasciando il ricordo di un eroe del coraggio e di un uomo cordiale, dedito al lavoro e di encomiabile spessore morale.

 

Riferimenti bibliografici:

“Giorgio Ghezzi, il Kamikaze. Storia di un uomo che voleva dare spettacolo” – R. Ravello – Ed. Il Ponte Vecchio (2008)

“La mia Rimini. 100 anni di sport 1900 – 2000” – a cura di G. Bezzi, S. Neri, I. Cucci – Ed. Tuttostampa (1999)

“Rimini 100. Una storia biancorossa” – a cura di R. De Bonis, F. Fanini, G. Zavatta – Ed. NFC (2012)

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Francesco Fanini, riminese classe ’64; tifoso della “maglia a scacchi” e appassionato della sua storia, ha curato con gli amici Raoul De Bonis e Giulio Zavatta il volume “Rimini 100”, nel 2012, anno del Centenario del Club romagnolo. Tra una giornata scolastica, è un maestro, e un match vissuto sugli spalti del “Romeo Neri", si occupa insieme allo storico Cristiano Cerbara, di tenere costantemente aggiornata la pagina facebook “Rimini 100” - Una Storia Biancorossa.

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