Storia degli Europei - Belgio '72 e Jugoslavia '76 - Gli Eroi del Calcio
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Storia degli Europei – Belgio ’72 e Jugoslavia ’76

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GLIEROIDELCALCIO.COM (Francesco Gallo) –

1972, la Coppa di Franz e Gerd

Giunti alla quarta edizione, ai campionati Europei del 1972 partecipano tutte le squadre del continente, con la sola eccezione­ del Liechtenstein. La struttura ricalca quella del 1968: otto gruppi, le prime classificate accedono alla fase finale che, dalle semifinali in poi, si svolgerà in Belgio.

        Dai gironi di qualificazione giungono sorprese, conferme e delusioni. Passano il turno la Romania dell’attaccante Mircea Lucescu, futura conoscenza delle panchine italiane, e l’Ungheria, capace di superare la Francia in cui milita l’esperto difensore Jean Djorkaeff, padre dal 1968 di Youri, incantevole trequartista dell’Inter anni Novanta.

        Avanti anche l’Inghilterra di Alf Ramsey, primi in un girone abbastanza agevole (Svizzera, Grecia e Malta), mentre il simbolo della musica britannica, i Beatles, si stanno sciogliendo dopo aver inciso il loro ultimo album Let it be.

        Qualificata anche la solita Unione Sovietica che, ancora una volta, deve vedersela con la Spagna allenata da una vecchia conoscenza del calcio europeo: László Kubala, che però non riesce a passare il turno. Gruppo amaro anche per l’Irlanda del Nord di George Best, soprattutto per quanto accaduto a livello politico attorno all’ultima partita.

        C’è da giocare l’ultimo turno del girone contro la Spagna, pur essendo di fatto entrambe eliminate. La novità è che non si giocherà a Belfast, il governo inglese ha preferito spostare la partita ad Hull sulla costa Est della Gran Bretagna, niente di più lontano da Derry, perché venti giorni prima è accaduto qualcosa che ha cambiato per sempre la storia del Paese. Il 30 gennaio del 1972 era una domenica. Per le vie di Derry il clima era molto teso perché nel frattempo lo scontro tra il governo di Londra e l’Irish Republican Army stava toccando l’acme della violenza. Quel giorno però in città c’erano giovani e adulti irlandesi senza armi ma con la sola forza delle loro idee. Ciò che è avvenuto dopo è una pagina buia della storia britannica: ventisei persone uccise dal fuoco del Primo Reggimento paracadutista inglese. È stata una domenica insanguinata, come avrebbe cantato più tardi Bono Vox insieme agli U2.

        La sorpresa più grande la regala il Belgio del Ct Raymond Goethals, l’allenatore più vecchio a vincere una Coppa Campioni nel 1993 con l’Olimpique Marsiglia, che nel girone eliminatorio supera sorprendentemente il Portogallo di Eusebio, divenuto finalmente capitano dopo dieci anni di nazionale lusitana. La forza della nazionale belga sembra la conferma anche nel calcio di un generale stato di grazia sportivo, personificato nel ciclismo dal Cannibale, Eddy Merckx, che tra il 1969 e il ’74 vince quattro volte il Giro d’Italia e cinque il Tour de France.

        Giunti ai Quarti di finale, i padroni di casa pescano gli azzurri di Valcareggi, campioni uscenti. È una sfida che racconta bene due pagine storiche del nostro Paese, una che guarda al passato e una al presente. Il Belgio dopo la Seconda Guerra mondiale è stato un coacervo di immigrati italiani, giunti in seguito alla firma del Protocollo italo-belga. Assoldati più che altro nelle miniere di carbone, nel 1956 hanno pagato un tragico contributo in termini di vite umane nel cosiddetto Disastro di Marcinelle, un colossale incendio che ha provocato la morte di 262 operai, di cui 136 italiani.

        La nazionale azzurra, detentrice del trofeo, è sulla strada del rinnovamento, soprattutto dopo il trionfo del ’68 e il secondo posto ai mondiali messicani del ’70. Valcareggi ha recuperato Riva, dopo il brutto infortunio causato dal terzino austriaco Hof, che di fatti segna un gol su rigore nella partita di ritorno a Bruxelles. Peccato, però, che il Belgio ne segni due in una partita in cui spicca il bomber Paul Van Himst, uno degli sportivi più gloriosi del Belgio. Per chi lo ricorda, Van Himst era nel cast del film Fuga per la vittoria con Michael Caine e Sylvester Stallone.

        L’Italia dice addio al torneo e «Il Corriere dello Sport» titola: «UNA INGLORIOSA WATERLOO PER NAPOLEONE VALCAREGGI», mettendo sotto accusa «atleti anziani e schemi superati». La tanto attesa rivoluzione tecnica non c’è stata, e i tifosi rimangono a bocca asciutta mentre nel Paese avvengono molti cambiamenti: la legge Fortuna-Baslini introduce il divorzio, viene abrogato l’articolo che vietava la produzione, il commercio e la pubblicità degli anticoncezionali, e poi è approvata la legge sulla tutela della maternità per le donne lavoratrici.

        Nelle altre partite dei Quarti di finale l’Unione Sovietica si sbarazza della Jugoslavia, all’Ungheria serve invece lo spareggio contro i romeni con il goal all’89’ dell’attaccante del Ferencváros István Szőke. Le due si affronteranno poi a Bruxelles, nello stadio dell’Anderlecht, dando vita a uno scontro simbolo di un calcio ormai superato, giocato su ritmi lenti, troppo legati ai vecchi retaggi calcistici delle ultime due decadi.

        La Germania, dopo uno splendido girone, supera anche gli inglesi. È l’inizio di una leggenda, quella di una nazionale capace dal 1972 fino a oggi di arrivare in finale in dodici competizioni internazionali su ventidue. La nazionale tedesca è una schiacciassi, trascinata dalla classe regale e cristallina di Franz Beckenbauer e dai tanti gol del capocannoniere Gerd Müller.

        Elegante e sublime, Beckenbauer sarà anche il Pallone d’oro del ’72 che tutti chiamano ormai «Der Kaiser», l’imperatore. È il capitano della squadra, la mente razionale del gioco, ed è considerato (e si considera egli stesso) Dio sceso in terra. Non a caso, per incompatibilità caratteriali, ha chiesto, preteso e ottenuto dall’allenatore Helmut Schön l’accantonamento di Günter Netzer, il calciatore con maggiore tecnica della storia tedesca, in favore di Wolfgang Overath. La differenza tra i due è che il primo con un cross è capace di metterti la palla sulla testa anche se stai dall’altra parte del campo, il secondo invece contrariamente al compagno è disposto a terminare le partite con la maglietta sudata.

        Müller, invece, è il simbolo della Germania operaia che si sta rialzando dalla Ricostruzione sulla spinta economica proveniente dalla Baviera. Tutti lo chiamano «Der Bomber», perché è l’unico giocatore ad aver vinto la classifica cannonieri di entrambe le fasi di una sola edizione degli Europei. Perno dell’attacco tedesco, nel 1972, tra nazionale e Bayern Monaco, metterà a segno la cifra record di 85 gol. Il record è rimasto imbattuto fino al 2012, quando Lionel Messi ne ha realizzati 91. A tal proposito il tedesco dirà: «Messi ha un solo difetto: non gioca nel Bayern».

        La Germania del 1972 è troppo forte, «la squadra migliore che io abbia mai schierato», persino più di quella che due anni dopo vincerà il Mondiale, parola dell’allenatore Helmut Schön. Giunta agilmente in finale, si ritrova davanti l’Unione Sovietica, l’altra protagonista della distensione internazionale. Si gioca il 18 giugno 1972, proprio mentre a Washington viene sventato un tentativo di spionaggio politico ai danni del Partito democratico all’interno dell’Hotel Watergate, dando avvio al più grande scandalo che abbia mai colpito la Casa Bianca. Lo stadio è quello dell’Heysel, dove tredici anni dopo troveranno la morte trentanove persone poco prima della finale di Coppa Campioni Juventus-Liverpool. L’URSS resiste 27 minuti, poi crolla sotto l’ennesima doppietta di Müller e la rete di Wimmer: 3-0.

        È un momento d’oro per la Germania. I tedeschi piazzano tre giocatori sul podio del pallone d’oro; sono il centro dell’economia europea per via delle due aziende leader nei motori come la BMW e l’Audi; e proprio nel 1972 ospiteranno anche le Olimpiadi. Ma dopo solo una settimana dall’inizio dei Giochi, un commando terroristico palestinese rovinerà la festa a tutti sequestrando e poi uccidendo undici atleti della squadra olimpica di Israele.

        Quelle immagini drammatiche dei terroristi in azione si mescoleranno con quelle ugualmente cruenti ad opera della banda tedesca Baader-Meinhof, che sconvolgerà la Germania con rapine, omicidi, e sequestri di persona. Secondo i terroristi, si trattava sostanzialmente di una lacerante protesta contro l’assurda rimozione del nazismo in atto in Germania, e che da quel momento avrebbe stimolato un doloroso processo di ricerca dell’identità da parte di un Paese cui i nazisti avevano rubato il passato e che gli americani stavano cercando di plasmare a loro immagine.

1976, il cucchiaio di Panenka

L’edizione del 1976 è ricordata come quella più equilibrata della storia, perché tutte e quattro le gare della fase finale sono finite ai supplementari, mentre per decidere la finale ci sono voluti addirittura i rigori.

        La Germania campione d’Europa e del mondo, pur lasciando a desiderare per il gioco espresso nel girone eliminatorio, si qualifica con un roboante 8-0 inflitto al Malta e si disfa della Spagna nei due incontri ai Quarti di finale (1-1 e 2-0). Per questo motivo la mannshaft viene indicata dalla stampa sportiva come la logica favorita per quello che potrebbe essere un inedito doppio successo. E ora tutti attendono una clamorosa quanto probabile rivincita con l’Olanda. La rivincita del Mondiale.

        Gli olandesi, pur avendo perso la finale dei Mondiali, rappresentano uno degli undici più talentuosi di tutti i tempi. L’Europeo del 1976 per molti è l’ultima possibilità di rivincere finalmente qualcosa insieme, anche perché Johan Cruijff ai prossimi campionati del mondo non ci sarà. «L’Arancia meccanica» vuole quindi imporre il proprio gioco, quello che ha rappresentato una rivoluzione calcistica e culturale. Una rivoluzione partita da Amsterdam, divenuta nel frattempo «de magisch centrum», il centro magico dell’Europa.

        Prima di farlo, però, devono superare come tutti il girone di qualificazione. Dentro quel gruppo, il destino ha inserito anche l’Italia che, dopo la disfatta ai Mondiali del ’74 (raccontati da Giovanni Arpino in Azzurro tenebra) ha passato il timone al mister Fulvio Bernardini. Bernardini è un ottimo allenatore, è ben voluto dall’ambiente e dagli italiani, ed è un amante delle sfide. Talmente tanto che un giorno a Villa Torlonia affrontò addirittura il Duce in persona in una leggendaria partita di tennis. Non lo aveva fatto per mera gloria, ma più che altro per tornaconto personale: voleva salvare la patente di guida dopo che, qualche giorno prima, aveva incautamente urtato l’automobile di Mussolini con la sua Topolino. Fuffo non è quindi un uomo qualunque, benché abbia sposato Ines, la figlia di Guglielmo Giannini, padre del «Qualunquismo» italiano.

        In vista della doppia partita con gli olandesi del calcio totale ci domandiamo: è meglio rinunciare definitivamente al contropiede e convertirsi al pressing degli olandesi? Oppure: chissenefrega degli olandesi, visto che alla fine dei conti il mondiale l’ha vinto la Germania?

        Bernardini comincia così anche la sua modesta rivoluzione lasciando a casa, per problemi di carta d’identità, tre grandi nomi come Riva, Rivera e Mazzola, che vengono sacrificati a beneficio di alcuni giovani assai interessanti. Tra i fortunati, spiccano i nomi di due ventenni molto in gamba: Gaetano Scirea e Claudio Gentile, saranno loro a guidare per lungo tempo la difesa della Nazionale che, tra meno di otto anni, vincerà la Coppa del mondo a Madrid. A mordere le caviglie di Cruijff nella sfida d’andata c’è l’esordiente Andrea Orlandini, detto «birillo». E da tale viene trattato da Cruijff per 90 minuti, il quale infatti nel giro di venti minuti ci fa gol due volte. Perdiamo 3-1.

        Italia e Olanda vengono poi fermate dall’imprevedibile Polonia del portiere Jan Tomaszewski, le cui continue parate disinnescano gli attacchi avversari e permettono ai suoi di portarsi a pari punteggio con la squadra di Cruijff, la quale si qualifica solo per differenza reti. Polacchi e italiani vengono così eliminati nel primo girone.

        La Jugoslavia che si presenta alle qualificazioni per i campionati Europei del 1976 è un Paese che sta cambiando profondamente. Il lungo processo di modernizzazione pare abbia raggiunto ormai la sua piena maturità e spulciando negli archivi di alcune fabbriche qualcuno ha trovato dei bollettini sindacali dai quali affiora un quadro della situazione assai interessante. «Non siamo mai stati meglio» dicono gli operai. La costruzione dell’«uomo socialista», impegnato nell’immane sforzo di trascinare il Paese verso l’industrializzazione, ha raggiunto ormai il suo livello più alto. È questa la spinta propulsiva con cui la Jugoslavia si prepara ad ospitare la fase finale degli Europei, per la quale si è qualificata superando un temibile girone e poi il Galles nei Quarti di finale.

        Se la Jugoslavia è da anni una certezza nelle competizioni internazionali, la Cecoslovacchia, al contrario, rappresenta una sorta di outsider. Dopo la «Primavera di Praga» nel Paese non si è persa la volontà della condivisione. Così la circolazione di nuove idee contrarie alle direttive di governo diventano il principio calcistico anche della squadra giunta ai Quarti di finale. Si lotta e si gioca per combattere l’onda della repressione che ha colpito anche lo sport, per cui ai calciatori cechi è vietato abbandonare il proprio Paese fino ai trentadue anni d’età. Ecco perché inglesi e sovietici rimarranno amaramente sorpresi davanti alla brillantezza e all’efficacia del gioco di questi perfetti sconosciuti che giungono così in semifinale.

        Nella penultima partita si gioca Cecoslovacchia-Olanda. Il 16 giugno allo stadio Maksimir di Zagabria si gioca su un campo ridotto ad un pantano. La pioggia abbondante rallenta il “calcio totale” degli olandesi, il che lascia spazio ai più fisici cecoslovacchi. Sarà, infatti, proprio quell’armadio di Anton Ondruš a colpire di testa un pallone, reso ancora più pesante dal fango, che va ad infilarsi sotto l’incrocio dei pali. Il «Beckenbauer dell’Est» segna il primo dei tre gol rifilati all’Olanda (3-1) e la Cecoslovacchia stacca il biglietto per la finale.

        Il giorno dopo gol a grappoli nella semifinale tra jugoslavi e tedeschi. La Jugoslavia è padrona di casa e, dopo solo mezz’ora, anche padrona del campo. Popivoda e Dzajic portano il risultato sul 2-0, e la strada sembra ormai in discesa. Anche nel secondo tempo la musica non cambia finché Heinz Flohe s’inventa un gol dalla distanza che galvanizza gli immortali tedeschi. Quando mancano dieci minuti alla fine e la partita fatica a sbloccarsi ulteriormente, l’allenatore Shon butta nella mischia il quasi esordiente Dieter Müller. L’attaccante sassone ci metterà solo tre minuti a segnare e dunque pareggia il conto: 2-2. Ma non finisce qui. Nei supplementari si scatena e nel giro di cinque minuti segna una favolosa doppietta: 2-4, che favolosa rimonta! La Germania ancora una volta è in finale.

        Il 20 giugno 1976 è l’imponente Stadio Rajko Mitić di Belgrado ad ospitare la finale. Da una parte Ondrus, Moder e Panenka; dall’altra Vogts, Müeller e Beckenbauer. Arbitra Sergio Gonnella di Asti, al quale due anni dopo verrà dato l’onore di dirigere anche la finale del mondiale argentino. La Cecoslovacchia parte da subito con una marcia in più, dimostrando ancora una volta l’orgoglioso piglio con il quale ha giocato e vinto tutte le partite che le hanno dato accesso alla finale. La Germania, invece, appare ancora stanca dopo la prodigiosa rimonta ai danni della Jugoslavia. Così già all’ottavo minuto i cecoslovacchi si portano in vantaggio con Ján Švehlík all’interno di un’azione confusa all’interno dell’aerea di rigore tedesca lasciata completamente a disposizione degli avversari. I tedeschi si bloccano, il loro gioco sembra ingessato: belle statuine in campo. Ne approfitta Karol Dobiaš con un gran sinistro dalla distanza che sorprende Sepp Maier: 2-0.

        Sembra la fine per i tedeschi, ma è solo l’inizio di una seconda caparbia rimonta della Germania. La completano il solito Dieter Müller e Bernd Hölzenbein: 2-2. I tempi supplementari, questa volta, non regalano grandi emozioni. Così, come si era già preventivato nelle semifinali, per la prima volta il campionato Europeo si deciderà ai calci di rigore. Gli spettatori in tribuna assistono eccitati e curiosi, sanno di essere testimoni di un evento storico.

        Segnano tutti quelli che si presentano sul dischetto, l’unico a sbagliare è però Uli Holness che calcia il pallone alle stelle. La palla della vittoria capita quindi tra i piedi di Antonin Panenka, che per sostenere economicamente la famiglia a Praga lavorava di notte in un albergo. Davanti a lui c’è Sepp Mayer, il più forte portiere tedesco di tutti i tempi. Il ceco parte con un vantaggio importante: sebbene sia conosciuto in patria come un rigorista infallibile, a Monaco le immagini del campionato cecoslovacco non arrivano. L’anonimato per Panenka è dunque un’arma potente. Così l’imprevedibile “cucchiaio” con cui il numero 7 ceco beffa il portierone tedesco è un meraviglioso gioiello di estro ed irriverenza. Un colpo geniale e poderoso che regala la vittoria degli Europei alla Cecoslovacchia nel più impensabile dei modi. «Un poeta, o meglio un pazzo» dirà di lui Pelè. Sì, perché c’è sempre un po’ di follia in un genio.

        Ci vorrà ancora molto tempo prima che qualcun altro decida di personalizzare il tiro dagli undici metri e quasi vent’anni prima che un’altra finale si decida ai rigori. Ma quello di Panenka rimane il primo esempio di un tiro dal dischetto talmente bello e improbabile che soltanto pochi al mondo, altri geni, o pazzi, come lui, avranno il coraggio di emulare. Su tutti, Francesco Totti, che ne ha personalizzato soltanto il nome il nome: «er cucchiaio», mostrato per la prima volta, sempre agli Europei, contro l’Olanda. D’altronde l’anno in cui Panenka ha incantato il mondo, il 1976, è anche l’anno di nascita di Totti. Non mi verrete a dire che è una coincidenza, vero?

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Nato a Cosenza, classe 1985, è storico, regista cinematografico e scrittore. Autore di diversi saggi e documentari sulla storia dello sport, è anche membro della Siss e dell'Anac. Da qualche anno lavora come supplente a Torino e ha da poco fondato la propria casa di produzione.

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