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Storie di Calcio

11 settembre 2001 … la storia si scrive in diretta. E il calcio?

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GLIEROIDELCALCIO.COM (Riccardo Lorenzetti) –

“Where were you when Kennedy was shot?”

“Dov’eri quando hanno sparato a Kennedy?”.

Libera traduzioni di quelle date fatidiche che ti entrano dentro, senza chiedere il permesso.  Ti prendono allo stomaco, ti strattonano con violenza, senza possibilità di scivolare via.

E allora ti ricordi dove eri, e cosa facevi in quel preciso momento: il tizio che avevi accanto, le parole di Caio, il gesto di Sempronio, che da allora non ti è più uscito dalla testa.

Dallas, 22 novembre 1963. La notizia che passa sui telegiornali di un’informazione ancora bambina e il grande Cronkite, in cravatta e maniche di camicia, che appoggia gli occhiali sulla scrivania, con una gestualità da attore consumato: “President Kennedy died, some 38 minutes ago.”

È l’eccezionalità sconvolgente del dramma, che in Italia vivemmo nelle ore appena successive al sequestro Moro, tanti anni più tardi: la notizia del rapimento, una mattina di inizio primavera, all’indomani di un bellissimo Juve-Ajax di Coppa dei Campioni finito tardissimo per i bambini che eravamo: e risolto con le prodezze del grande Dino Zoff ai calci di rigore.

E poi le edizioni straordinarie del TG1, Bruno Vespa e Paolo Frajese, l’automobile crivellata di colpi, il rumore degli elicotteri. La tragedia che entra nelle case in presa diretta, come era già successo con il terremoto in Friuli, e come da lì in poi diventerà consuetudine. Con l’Irpinia, Vermicino e tutto il resto.

Ma fu, quello, uno choc che potemmo metabolizzare, e diluire, nel corso dei drammatici 55 giorni della prigionia: con Via Gradoli, via Montalcini, il lago della Duchessa e tutti quei nomi che finirono per diventarci familiari. I bollettini delle Brigate Rosse, le dimissioni di Cossiga, il fronte della fermezza, Moro fotografato con il giornale in mano e infine la Renault 4 rossa: e quel portellone aperto che diventerà l’emblema più tragico dei cosiddetti anni di piombo.

Poco a che vedere con l’11 settembre 2001.

Che arrivò con la forza di un uragano. Di quelli che in America chiamano vezzosamente con il nome di una signora ma portano dentro di loro una violenza cattiva e distruttrice, e spazzano via tutto: il prima, il dopo e il durante.

Cominciò, quell’11 settembre, alle due e mezzo del pomeriggio.

Ed ognuno si ricorda se fosse in auto, in treno, in una fabbrica, in un ufficio, in una mensa universitaria… Arrivarono le immagini alla televisione. E chi non poteva vederle, ascoltò la radio: in un mondo che stava conoscendo l’ultimo respiro dell’informazione “normale”, prima di consegnarsi mani e piedi agli smartphone.

La storia si compì, per la prima volta, in diretta.

Fu sconvolgente, e inedita. Fu la famosa fotografia della morte del miliziano, di Robert Capa; che stavolta moriva davvero, davanti ai nostri occhi. Non come i terremoti, o gli attentati, che la televisione arrivava a disastro ormai avvenuto.

Il secondo aereo che si conficca nel grattacielo quando le tv di mezzo mondo sono già in collegamento diretto, è la storia che entra dentro le case, e le brucia… Lo spettacolo, spaventoso, dell’apocalisse che si materializza davanti ai nostri occhi.

E visto che si parla di sport, lo spettacolo tristissimo dello Stadio Olimpico, per un surreale Roma-Real Madrid, a poche ore di distanza dal dramma.

E soprattutto la Lazio, nell’inferno di Istanbul, contro il Galatasaray. Con i Turchi che si fanno orrendamente beffe del minuto di raccoglimento, unico strappo al protocollo che il calcio concede alla legge dello show-business.

Salvo poi rendersi conto, stavolta, di averla fatta fin troppo grossa. E rimandare a data da destinarsi le partite che avrebbero dovuto giocarsi il giorno dopo.

Dove, però, ricordo il disappunto del povero Alfio. Un brav’uomo che teneva nel portafoglio le foto dei nipotini, accanto a quelle di Charles e Sivori: “Perché con tutte queste brutte notizie, stasera, vedere la Juve mi avrebbe fatto tornare il sorriso.”

E a distanza di vent’anni esatti, devo ancora capire se quella frase mi stava mostrando il suo lato peggiore.

O quello migliore.

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Riccardo Lorenzetti ne ha combinate molte, in vita sua. Ha ideato, e condotto, programmi radiofonici e televisivi; ha scritto per giornali e riviste, per il teatro e per il cinema. Ha lavorato in fabbrica, ha insegnato matematica in una scuola primaria, ha diretto redazioni giornalistiche ed emittenti locali. Si è cimentato anche come paroliere di musica leggera. E’ nato nel 1966; e infatti vorrebbe avere la genialità di Zola e l’irruenza di Alberto Tomba. Gli eccessi di Eric Cantona, la misura di Costacurta, la bellezza di Cindy Crawford. Avrebbe tanto voluto essere al posto del moretto che balla Reality con Sophie Marceau e, soprattutto, gli sarebbe piaciuto scrivere il testo di “Baciami Ancora”, di Jovanotti. Non essendone evidentemente capace, si è accontentato di rubargli l’incipit, per questo suo quinto libro. Dopo “L’anno che si vide il Mondiale al Maxischermo” (2012), “La Libertà è un colpo di tacco” (2014), “L’amore al tempo di Mourinho” (2016), “Il Paese più Sportivo del Mondo” (2018).

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