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ESCLUSIVO – Intervista a Maurizia Ciceri: “Ai miei tempi le ragazze che giocavano a calcio erano delle mosche bianche …”

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GLIEROIDELCALCIO.COM (Giovanni Di Salvo) – Per oltre vent’anni le sue giocate, e soprattutto le sue reti, hanno estasiato tifosi, allenatori, presidenti e compagne di squadra. Infatti la storia di Maurizia Ciceri parte nel lontano 1966 e prosegue, scandita da grappoli di gol, fino all’inizio degli anni Ottanta. Da Milano a Roma, da Città del Messico a Colonia, le sue prodezze hanno travalicato ogni latitudine regalando ovunque emozioni. A suggellare la sua splendida carriera, nel suo palmares personale trovano posto due scudetti (nel 1979 e nel 1980 con la Lubiam Lazio), due Coppa Italia (nel 1970 col Real Torino e nel 1977 con Lubiam Lazio), la Coppa Europa vinta nel 1969 e la medaglia di bronzo conquistata nel 1971 nel Trofeo Martini & Rossi.

Il suo nome appare nei tabellini delle marcatrici già nel 1966 quando ancora non esisteva un campionato di calcio femminile. Partiamo dunque dagli albori della sua carriera.

“Il primo approccio col mondo del calcio femminile avvenne grazie a Valeria Rocchi, che aveva messo un’inserzione nei giornali per cercare delle ragazze che volevano giocare a pallone. Io ero piccolissima all’epoca, ero poco più che tredicenne, e il mio papà mi portò a fare un provino e venni subito inserita nel gruppo. Valeria Rocchi ci dava tutto il materiale, compreso le tute. In realtà ci fornivano anche le scarpe da gioco anche se io preferivo comprarmele da sola. Ci allenavamo due volte a settimana e poi la domenica giocavamo le partite in giro per la Lombardia ma siamo arrivate anche a Bologna. Organizzare una trasferta fuori Milano era estremamente difficile tenuto anche conto che eravamo tutte minorenni eppure Valeria Rocchi, che diede un grande contribuito a questo sport, riuscì a superare pure queste difficoltà”

Quando avviene la costituzione dell’Ambrosiana?

 “Mio padre si appassionò a tal punto che insieme ad un gruppo di amici nel 1967 fondò una società e siccome era tifosissimo dell’Inter la chiamò Ambrosiana. Mia mamma (Silvia Avogadro ndr), risultava Presidente mentre mio padre (Giovanni Ciceri ndr) il Direttore Tecnico. Chiaramente nei provini non si poteva fare molta selezione visto che le praticanti erano pochine, perciò tutte venivano accettate e poi era compito del nostro allenatore, Giusto Cassani, di insegnargli a giocare a pallone.”

Che tipo di giocatrice era? Quali erano i suoi punti di forza?

“Giocavo nel ruolo di mezzala o centravanti. Ero molto tecnica perché fin da piccolina mio papà mi aveva insegnato a palleggiare e ad avere un buon controllo del pallone. Inoltre ero ambidestra e tenga presente che all’epoca erano veramente poche quelle che sapevano calciare bene con entrambi i piedi. Ero un po’ meno forte di testa.”

Com’era vista una donna che giocava a calcio in quel periodo?

“In quegli anni c’erano pochissime squadre femminili perché si riteneva che questo sport non fosse idoneo ad essere praticato dalle donne. Le ragazze che giocavano a calcio erano delle mosche bianche e devo ammettere che all’inizio anche mia madre era un po’ contraria. La gente veniva a vedere le nostre partite per prenderci in giro ma poi, piano piano, si è appassionata. Però ci sono voluti molti anni. Infatti iniziarono a vedere il calcio femminile sotto un altro profilo solo a metà degli anni Settanta. Ricordo che a quei tempi giocavo alla Lubiam Lazio e disputavamo le partite al Flaminio.”

Dopo l’Ambrosiana la sua carriera inizia a decollare nel Real Torino

“Nel 1970 Rambaudi mi volle a tutti i costi nella sua squadra anche perché così sarei potuta passare alla nazionale della FICF che l’anno seguente avrebbe partecipato in Messico alla seconda edizione del Mondiale (Il Trofeo Martini & Rossi ndr). Così lasciai l’Ambrosiana e mi trasferii, con un bell’ingaggio, al Real Torino. Nonostante ciò continuai a portare avanti gli studi frequentando una prestigiosa scuola tedesca. Pertanto appena finivano le lezioni prendevo il treno per Torino, facevo gli allenamenti e poi rientravo la sera oppure col primo treno del mattino per essere in classe entro le ore 8,00. Infatti sia io che i miei genitori ci tenevano che conseguissi un diploma che mi avrebbe permesso di accedere all’Università sia in Italia che in Germania. E devo ammettere che mi è stato realmente utile per entrare a lavorare in Vaticano. Questo per dire che pur di giocare a pallone ho fatto tanti sacrifici. Però sono stati anni belli dove ho intrecciato amicizie che sono rimaste ancora adesso.”

Dopo una pausa di alcuni anni per maternità ritorna a giocare vestendo il biancoceleste. Come coniugava il doppio ruolo di mamma e giocatrice?

“Dopo i Mondiali in Messico Rambaudi sciolse il Real Torino e così passi alla Astro, dove ritrovai Elena Schiavo. Nel 1972 lasciai il calcio perché mi sposai e poco dopo nacque mia figlia Monia. Pensavo di aver chiuso col pallone ed invece il presidente della Lazio, una volta venuto a sapere che mi ero trasferita vicino Roma, mi contattò e mi offrì un buon ingaggio e delle buone prospettive. A Valbonesi feci subito presente che avevo una figlia piccola ma lui mi rispose che non c’era nessun problema. Così Monia, praticamente, è cresciuta tra i campi da calcio ed è diventata la mascotte della nostra squadra. Tutti le volevano bene, dal mister alle mie compagne. La portavo con me anche in trasferta perché era giusto che lei avesse la mamma sempre vicino. Secondo me se uno vuole una cosa riesce a farla ed io sono riuscita a far conciliare bene sia il mio ruolo di mamma che quello di calciatrice.”

In che anno decide di appendere le scarpe al chiodo?

“Ero giunta quasi alla soglia dei trent’anni e pertanto avevo deciso di smettere anche perché di botte ne avevo già prese tante e comunque mi ero tolta molte soddisfazioni. Invece la Giolli Roma si fece sotto e mi convinse a continuare. Così disputai altre due stagioni sebbene mi sembrò quasi un tradimento il passaggio dal biancoceleste al giallorosso. Devo però ammettere che non giocai tanto perché nel frattempo era entrata a lavorare in Vaticano ed avevo pochissimo tempo da dedicare allo sport. Quindi, non riuscendo più a conciliare gli impegni della famiglia, del lavoro e del pallone, preferii non proseguire ulteriormente ritirandomi.”

Quale è stata la sua compagna d’attacco ideale?

“Ne indico due, Elena Schiavo e Betty Vignotto. Infatti prima che Elena venisse spostata a libero io e lei formavamo un bel tandem d’attacco. Ma mi sono trovata molto bene anche con Betty Vignotto, peccato che abbiamo giocato insieme poche volte.”

Quali sono state le soddisfazioni più belle con la Nazionale?

“Esordire nel 1968 con la Cecoslovacchia quando ero ancora piccolissima e vincere l’anno dopo la Coppa Europa portando la fascia da capitano e realizzando una doppietta nella finale contro la Danimarca. E poi come non menzionare il Mondiale in Messico nel 1971? Guardi sono state delle esperienze così belle ed intense che mentre parlo con lei mi emoziono ancora perché li ricordo con affetto ed amore. “

Si ringrazia Maurizia Ciceri e sua figlia Monia per la documentazione fotografica messa a disposizione

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Per chi volesse approfondire l’argomento:

Giovanni Di Salvo “Quando le ballerine danzavano col pallone. La storia del calcio femminile con particolare riferimento a quello siciliano” della GEO Edizioni.

Giovanni Di Salvo “Le pioniere del calcio. La storia di un gruppo di donne che sfidò il regime fascista” della Bradipolibri (Prefazione scritta dal CT della nazionale Milena Bertolini)

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Ingegnere palermitano con la passione per il giornalismo e il calcio femminile. Autore di due libri: "Le pioniere del calcio. La storia di un gruppo di donne che sfidò il regime fascista" e "Quando le ballerine danzavano col pallone. La storia del calcio femminile".

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