La storia di Caju: genio e sregolatezza - Gli Eroi del Calcio
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La storia di Caju: genio e sregolatezza

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La storia di Caju, Campione del Mondo col Brasile nel ’70. Un genio e sregolatezza di quel periodo.

“[…]Paulo Cézar Caju riceve palla spalle alla porta e di tacco, con una giocata tipica del proprio stile di gioco, la fa sfilare verso Bob Marley. Questi calcia in porta di prima intenzione, andando a segno con un destro pregevole.

Eppure la scena in questione, entrata prima nella storia e poi nella leggenda, è accaduta davvero. A Rio de Janeiro, nel quartiere della Gávea. Nel 1980, Bob Marley è in Brasile per l’inaugurazione della filiale di una casa discografica, l’Ariola Records.

Il legame tra i due, tra Brasile e Giamaica, tra calcio e musica, va in realtà al di là del pallone stesso. Paulo Cézar non è solo uno dei più grandi che abbiano indossato la maglia verde e amarela. Non è solo il nostalgico idolo di un intero paese, tra Botafogo, Flamengo, Fluminense e le mille e mille altre casacche indossate in carriera. È uno dei primi calciatori concretamente impegnati nella lotta al razzismo.

L’apelido, il soprannome che gli rimarrà appiccicato per tutta la vita, come un marchio, deriva esattamente dalla propria ideologia. Nel 1968 Paulo Cézar si reca negli Stati Uniti e fa la conoscenza delle Pantere Nere, il movimento afroamericano che si batte per i diritti delle persone di colore. E per imitarle inizia a colorarsi i capelli di rosso.

Eppure la presa di posizione di Caju è tremendamente seria. Anche perché la discriminazione inizia sin da subito a far parte della sua vita. Da ragazzino va a trovare la madre sul posto di lavoro, ma è costretto a intrufolarsi dalla porta secondaria per non essere visto. Una volta, assieme al Botafogo, si reca a una premiazione in un country club del Rio Grande do Sul. Ma all’ingresso è appeso un avviso in bella vista: qui i neri non possono entrare.

Ma è al ritorno in patria, appena maggiorenne, che inizia a compiersi la leggenda di Paulo Cézar Caju. Esterno sinistro d’attacco, uno dei primi destri a giocare dalla parte opposta del campo, è un funambolo che abbina scaltrezza, rapidità e una qualità tecnica superiore. Ha un dribbling raffinato e raramente si fa portare via il pallone.

Caju inizia nel Botafogo, poi passa al Flamengo, quindi farà parte sia del Fluminense che del Vasco da Gama. Al Botafogo vince il primo campionato nazionale della storia del club, la Taça Brasil del ’68, antesignana del Brasileirão. Al Flu farà parte della Máquina di metà anni settanta, il Tricolor più forte di sempre. Nel 1980 diventerà il secondo nella storia del futebol a indossare le maglie di tutte e quattro le grandi di Rio: un anno prima c’era riuscito per primo il difensore Moisés, che aveva completato il proprio tour dello Stato carioca al Fluminense.

Caju ha un carattere irriverente che nel corso degli anni gli attira qualche guaio. Nel 1971 il suo Botafogo sta conducendo il girone del Campionato Carioca con un largo vantaggio sulle inseguitrici. E lui, a poche giornate dalla fine, ha la pessima idea di farsi fotografare con la fascia di campione al petto. Nello stesso periodo, durante una partita di quel torneo, si mette a palleggiare in maniera irrisoria e irrispettosa. Narrano le cronache che, da lì in poi, tutti gli avversari del Botafogo giocheranno alla morte contro la capolista. Anche chi non ha più obiettivi in palio. E il Fogão finirà per crollare vertiginosamente, venendo superato all’ultima giornata dal Fluminense. Nemmeno del Fla e del Flu, dove comunque vince parecchio, Caju ha soltanto ricordi positivi. In rossonero viene perseguitato dai tifosi, che nel’ 73, dopo una sconfitta interna, gli distruggono l’auto all’esterno del Maracanã.

È un periodo sempre più conturbato per Caju. Anche con la Seleção. Agli strepitosi Mondiali messicani hanno fatto seguito quelli del ’74, in Germania Ovest. Il Brasile si è presentato come l’ombra della squadra che quattro anni prima aveva dominato il mondo. E Paulo Cézar si è attirato le antipatie di una buona parte dello spogliatoio, convinto che pensi soltanto a tirare indietro la gamba in virtù dell’imminente trasferimento al Marsiglia.

Nel 1978 andrà pure peggio: Caju nemmeno farà parte della spedizione in Argentina, personaggio sempre più indigesto dopo aver reclamato a gran voce un aumento dei premi previsti per la squadra.In mezzo c’è l’unica avventura europea di rilievo, al Marsiglia. In Francia Caju ritrova l’amico Jairzinho, ma non riesce mai ad adattarsi in maniera completa. È un bad boy del pallone, ama il lusso, si circonda di belle donne. E comincia a far concretamente la conoscenza di quella che diventerà una triste e indesiderata compagna di vita: la cocaina.

La droga è un serpente che, quando lo attanaglia tra le proprie spire, non gli consente più di divincolarsi. Caju ne fa uso anche negli ultimi anni di carriera: al Corinthians, che al secondo tentativo lo acquista nel 1981 dieci anni dopo aver organizzato una colletta – fallita – tra dirigenza e tifosi, e al Grêmio, dove vince la Coppa Intercontinentale del 1983 contro l’Amburgo. Una volta lasciato il calcio, la dipendenza diventa totale. Caju allontana amici ed ex compagni, rigettando ogni aiuto possibile. E sperpera tutto quel che ha, arrivando al punto di vendere due appartamenti di lusso e la medaglia di campione del mondo conquistata nel 1970.[…]”

Stefano Silvestri – goal.com

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