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Calcio & politica: il caso ‘Mumo Orsi’

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Durante questi primi giorni dei Mondiali in Qatar, su radio, televisioni, giornali e social media, è possibile imbattersi quotidianamente in servizi giornalistici o analisi approfondite sulle tante (troppe) dinamiche politiche che, in un Paese dove gran parte dei diritti civili non sono garantiti, si stanno inevitabilmente legando al gioco del calcio.

Come in molti sanno, però, fuor di retorica e del velo di ipocrisia, il binomio calcio e politica è legato a questo sport sin dalla sua nascita. Sulle pagine de ‘Gli eroi del calcio’ è infatti possibile imbattersi in innumerevoli articoli che ne parlano, e questo che state per leggere è ambientato nell’Italia di circa un secolo fa. I protagonisti sono un calciatore, un dittatore, un capitano d’industria e il governo argentino.

Quando Agnelli convinse Benito Mussolini

Se andate allo stadio Centenario di Montevideo c’è una placca che celebra le due vittorie olimpiche dell’Uruguay e di fatti le due curve si chiamano la ‘Colombes’ – come lo stadio di Parigi in cui hanno vinto la prima Olimpiade – e l’altra si chiama la ‘Amsterdam’, in riferimento alla città dove hanno conquistato il secondo titolo consecutivo. 

Proprio dopo la fine dei Giochi olandesi, l’Italia si rende conto che sulle rive del Río de la Plata i figli e i nipoti degli emigrati hanno fatto del fútbol un’arte, una religione e uno stile di vita. Perché non richiamarli verso i patri lidi affinché diano una mano a far progredire il calcio italiano? 

Ci sarebbe un ostacolo. Nel 1926 è stata stilata la Carta di Viareggio, il primo vero e forse unico contributo del fascismo alla rifondazione del calcio. Il documento chiariva che si poteva giocare nel nostro campionato solo se si era italiani. Giovanni Agnelli, però, vorrebbe investire il proprio denaro per portare qualche stella sudamericana alla Juventus, quindi è lui stesso a suggerire una soluzione a Mussolini. Così gli pone il problema degli oriundi. 

Il proprietario dell’azienda italiana più importante spiega al Duce che la proibizione di ingaggiare i figli degli emigrati costituirebbe una seconda punizione per coloro che hanno dovuto abbandonare la terra natìa alla ricerca di un lavoro. Agnelli e Mussolini giungono quindi al compromesso che il sangue italiano resisterebbe almeno due generazioni, e che in fondo gli oriundi sono «figli di un’Italia che si spinge fin oltre l’Atlantico». 

Raimundo Orsi, detto ‘Mumo’

Il primo ad arrivare dall’Argentina sotto la Mole è Raimundo Orsi, detto «Mumo». È una piccola ala sinistra, scattante e dotato di un dribbling di corpo irresistibile. Pesa poco più di sessanta chili, ha il classico volto dell’emigrato denutrito e un’espressione ingenua alla Buster Keaton. 

La trattativa per strapparlo all’Independiente è stata assai complessa. I dirigenti argentini, fiutando l’affare, si sono appellati alla ragion di Stato e hanno detto di temere la sollevazione popolare contro la partenza dell’idolo di Avellaneda. In effetti, le autorità politiche argentine hanno criticato l’ingerenza del governo fascista nella trattativa. Da Buenos Aires a Rio de Janeiro è nota la caparbietà con cui il Duce sta cercando di tener legati alla madrepatria non solo gli immigrati, ma anche i discendenti nati in America Latina. 

A Buenos Aires del resto gli italiani hanno da tempo occupato le poltrone più prestigiose. L’arcivescovo della città si chiama Bottaro, il capo dell’esercito Dellepiane, il preside della Facoltà di Lettere dell’Università Ravignani, il capogruppo dei senatori del Partito Radicale Molinari e il presidente dell’Unione Industriale ha addirittura il cognome di chi ha scoperto quelle terre: Colombo. 

Inoltre, nelle scuole italiane d’oltreoceano si esalta la ritualità patriottica, e visto che il vento del fascismo è arrivato sin qui, gli alunni entrano in classe esibendo il saluto romano. Poi, già che ci sono, ostentano anche gagliardetti, fez e camicie nere. 

Tutto ciò non ha fatto altro che alimentare un clima di insofferenza e di ostilità nei confronti degli immigrati italiani in tutta l’America Latina. Le tensioni a São Paulo sono sfociate anche in incidenti di piazza, dopo che la redazione del «Piccolo», organo ufficiale del Pnf locale, è stata devastata da una folla inferocita a causa di alcuni articoli anti-brasiliani a firma del direttore Luigi Freddi, ex vice segretario dei Fasci italiani all’estero e futuro reggente di Cinecittà e del Centro sperimentale di cinematografia. 

A Buenos Aires, invece, le proteste per la cessione di Orsi spingono il presidente Hipólito Yrigoyen a introdurre provvedimenti restrittivi nei confronti di molti italiani che, tra l’altro, ispirati dal vento rivoluzionario del ‘biennio rosso’, ora chiedono anche le stesse libertà democratiche che sono state concesse agli argentini e in più sventolavano la bandiera delle otto ore lavorative. 

L’argentino non può giocare

Durante questo marasma, Mumo Orsi giunge a Torino. E subito riceve in premio una Fiat 509 e ottomila lire al mese di stipendio. Tutto ciò nel momento in cui un chilo di pane costa 25 centesimi, un vestito 90 lire, un operaio guadagna 400 lire e Gilberto Mazzi sogna e canta di poter avere Mille lire al mese

Bontà sua, il calciatore oriundo è parsimonioso, e preferisce rimanere a casa a suonare «un tanguito» col suo violino di marca. Del resto, ancora non può scendere in campo con i suoi compagni. La Federazione pretende che rimanga inattivo per tutta la stagione 1928-1929, in attesa di accertarne le evidentissime origini italiane. 

Agnelli fa nuovamente pressioni su Mussolini affinché dia lui il permesso al suo nuovo asso di poter giocare. Il nulla osta del Duce arriva poco tempo dopo, e il presidente di Fiat e Juventus può finalmente godersi la sua stella argentina. Se ne innamorerà immediatamente, nello stesso modo in cui suo figlio Gianni si innamorerà di Omar Sívori. 

L’allenatore Carlo Carcano lo schiera a centrocampo e gli mette accanto una mezz’ala offensiva di nome Renato Cesarini, che dicono esser nato a Senigallia, ma in realtà è cresciuto e si è calcisticamente formato a Buenos Aires. Il vizio di segnare nei minuti finali delle partite, che gli riserverà il beneficio di guadagnarsi una voce a suo nome nell’ultima pagina del dizionario del calcio, non è l’unico che ha. È infatti un portento anche sulle piste da ballo, dove ogni sera conquista una preda femminile. La terza volta che Cesarini si presenta all’allenamento con il cappotto sopra il pigiama, i dirigenti bianconeri si rassegnano a non chiedere dove abbia trascorso la notte. 

La fuga in Argentina

Dopo aver regalato quattro scudetti alla Juventus, due Coppe Internazionali (1930, 1935) e un Mondiale di calcio all’Italia (1934), Orsi nel 1935 scapperà dall’Italia insieme ai romanisti Guaita, Stagnaro e Scopelli. Gli oriundi temevano di essere chiamati sotto le armi e di dover partire come tanti altri soldati italiani per la Guerra d’Etiopia. Preferiranno, invece, partire per l’America Latina con le valigie piene di banconote. 

La stampa fascista si scatenerà chiamandoli «spregevoli disertori e traditori». Scatterà anche la denuncia per traffico illecito di valuta. In questo affaire verrà coinvolto anche l’ex presidente giallorosso Renato Sacerdoti, il cosiddetto «banchiere di Testaccio». Sarà condannato a cinque mesi di confino. Il suo essere ebreo non lo aiuterà: Hitler in quegli stessi giorni varerà a Norimberga le leggi della persecuzione razziale, e anche in Italia si avvertiranno le prime avvisaglie della tempesta. 

Mumo Orsi, invece, continuerà gli ultimi gloriosi anni della sua pittoresca carriera, da viandante, tra Argentina, Uruguay e Brasile. Quando si ritirerà nel 1939, poteva contare ben 35 presenze e 13 reti con la Nazionale italiana. E per quasi un secolo manterrà il record di oriundo più prolifico e con più presenze per gli azzurri, prima dell’avvento di un altro argentino: Mauro Germán Camoranesi.

GLIEROIDELCALCIO.COM (Francesco Gallo)

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