La Penna degli Altri

Campobasso: Di Risio racconta Scorrano

SSCITTADICAMPOBASSO.IT (Andrea Vertolo) – “Se lo avessi di nuovo di fronte, oggi, cosa gli diresti. Il sospiro lungo, pieno d’amarezza, gli occhi diventano lucidi e il magone strozza la voce in gola. “Se potessi oggi dirgli qualcosa gli direi, Michè, mi dispiace per quello che è successo quando ti hanno costretto ad andare via da Campobasso. Mi dispiace, perché dietro di te dovevo andare via anche io. È stata una cosa ingiusta, insensata. È come se mi avessero diviso a metà”. Raffaele Di Risio, un giocatore che il rossoblù ce l’ha sulla pelle tutti i giorni, un giocatore che, insieme a Scorrano, rappresentò il Molise in quella squadra fenomenale che ci portò prima in serie B e poi a spadroneggiare tra le grandi d’Italia. A undici anni dalla scomparsa del nostro eterno capitano, è proprio lui, l’amico, il compagno di stanza nei ritiri, il suo braccio destro, a ricordare Michele attraverso racconti e aneddoti.

“Davamo tutto in campo – le sue parole confidate davanti a un caffè – del resto per noi molisani c’era un forte senso di appartenenza, l’amore per la propria gente e per le proprie radici ti prendeva tutto. Volevamo che questa regione si elevasse. Io avevo molte richieste al nord dopo aver giocato con la Triestina. Ma il mio pallino era giocare a Campobasso, anche perché me ne andai da qui che mi fischiavano. Volevo tornare per riscattare me e questa terra. Così lasciai la Triestina per tornare a Campobasso, feci la scelta giusta perché in quell’anno andammo a vincere il campionato di serie C. Con Michele ho avuto un rapporto bellissimo e ogni volta che sento il suo nome sento un’emozione forte dentro. A casa mia c’è un corridoio, sulle pareti c’è una foto che sembra un manifesto da cinema, quando passo di lì per andare in camera faccio un piccolo segno a Michele e vado. Eravamo sempre insieme, eravamo compagni di stanza nei ritiri e in trasferta. C’era un rapporto molto forte. Prima delle partite ci confidavamo e ci davamo la carica ripentendoci ‘Bisogna giocarcela, bisogna lasciare tutto nel campo, bisogna giocare fino alla fine senza paura’.

Ti dico, e questo è un aneddoto che spesso mi piace ricordare: io in campo mi trasformavo, diventavo un’altra persona, tanta era la voglia di lottare che perdevo il senso della violenza nei contrasti di gioco. Michele mi ha aiutato molto in questo senso, mi teneva calmo. Se mi mettevo a battibeccare con un avversario a gioco fermo Michele mi veniva vicino, mi teneva stretta la mano sul mio braccio, facendo forza con il pollice sul muscolo. Faceva un male incredibile. Mi prendeva talmente con tanta forza che lo supplicavo di lasciarmi. E lui mi diceva: ‘Raffaè mi devi guardare negli occhi e mi devi dire che hai capito, devi stare calmo”. Io mi dimenavo per il dolore, lo guardavo negli occhi e gli dicevo: ‘Ok, Michele ho capito, adesso mi calmo’. Sul braccio mi rimaneva un segno nero per 10-15 giorni. Michele era questo, un leader in campo e fuori.

[…] quando vivi la tua infanzia in un paese del Molise e a 10 – 11 anni hai come idoli i vari Fera, De Matteis, sogni di indossare quella maglia. Ecco perché per noi indossare quella maglia significava tutto. In fondo nel calcio è l’amore per la maglia a trascinare le emozioni, la maglia rappresenta tutto, ed è per essa che noi abbiamo sempre dato il massimo”.

Andrea Vertolo Ufficio Stampa SS Campobasso Calcio

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Redazione

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