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C’erano una volta i grandi difensori italiani

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GLIEROIDELCALCIO.COM (Andrea Gioia)

La tradizione della pubblicizzazione calcistica, con molta probabilità, ha avuto il suo periodo di maggiore splendore nel decennio ’90. Un arco di tempo iniziato con il futuristico Mondiale italiano e proseguito attraverso trasferimenti miliardari ed esportazione televisiva.

Se escludiamo le pubblicità degli anni ’80, che vedevano alla ribalta i fenomeni della incredibilmente ricca Serie A, la prima immagine che viene in mente è quella di Vialli e Mancini che pubblicizzano uno dei nuovi prodotti della Sega, oppure Baggio e Signori che ballano il tip tap, in frac, calzando le loro Diadora. Verrà poi il tempo degli spot con i leoni e quello dei profumi per uomo.

Nel 1996, però, la Nike decide di cambiare registro, alzando il tiro attraverso la spettacolarizzazione del prodotto. Nasce così un girato di 90 secondi che unisce calcio e capacità cinematografica, in una ambientazione romana che riesce a dare un tocco di spettacolarizzazione senza precedenti nel pallone. I vari Cantona, Figo e Kluivert che giocano contro i demoni, all’interno del Colosseo. Tra quei fenomeni ne viene scelto anche uno italiano, un certo Paolo Maldini.

Sarà lui, nell’anno dell’Europeo inglese, a diventare il simbolo dell’azienda americana, “presenziando” su un maxi cartonato di 45 x 12, posizionato sulla strada che conduceva a Wembley. Nulla di strano o di sorprendente, considerata la qualità del campione.

La cosa che risaltava, però, era lo slogan scelto dalla Nike:

“Il portiere dell’Italia: il lavoro più facile in Europa”.

Una sorta di omaggio ad una tradizione calcistica iniziata quasi cento anni prima, sviluppatasi attraverso l’utilizzazione dell’arma difensiva come veicolo per arrivare alla vittoria. Una cultura del difendere costruita, presumibilmente, partendo dal cosiddetto Metodo di pozziana memoria e raffinata con il tempo. Essere difensori italiani, almeno fino al primo decennio del nuovo millennio, significava garanzia di affidabilità.

Un esercito di campioni capaci di attraversare epoche differenti e di mantenere altissimo il livello tecnico. I vari Foni, Rava, Ballarin, Trapattoni o Burgnich, crescevano e maturavano con la convinzione di essere utili ad un progetto e di far parte di una costruzione di gioco tipicamente azzurra. Una scuola in continua evoluzione, mai scialba di nuovi fenomeni, quasi indistruttibile. Una scuola non solo rude e pragmatica, ma anche raffinata ed elegante.

Fino alla fine dei ’90, quindi, essere il portiere della Nazionale poteva davvero significare qualcosa di unico. La cosa che dimenticò la Nike, presumibilmente, fu quella di non sottolineare il fatto che la tradizione nostrana, anche in termini di estremi difensori, aveva da sempre rappresentato la scuola di riferimento nel panorama calcistico internazionale.

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