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La storia dello Scudetto del Cagliari – seconda parte-

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Lo scudetto del Cagliari

Per fortuna dei sardi l’Inter pareggia a Napoli, il Milan batte la Fiorentina per 4 a 2 e solo Juve conquista i due punti, battendo la Lazio per 2 a 1. Ancora appare non del tutto in forma il Cagliari quando, il 28 dicembre ’69 pareggia in casa con il Milan per 1 a 1. Segna Riva all’inizio; la squadra sarda tiene per tutta la partita e rintuzza le iniziative del Milan, che poi viene premiato con il pari grazie a un gol di Prati.

Il girone d’andata finisce il 4 gennaio 1970 con la chiara vittoria sul Torino per 2 a 0 grazie a Gori e Riva. Il Cagliari chiude la prima tornata di campionato con 24 punti, 1 in più rispetto al campionato precedente. L’11 gennaio del 1970, la prima giornata di ritorno, il Cagliari abbatte per 4 a 0 la Sampdoria. Domenghini, Riva, Gori e ancora Domenghini a segno. Inutili tanti commenti: Cagliari troppo forte. Ma la partita viene ricordata per il grave infortunio occorso a Tomasini. Egli per cercare di stornare un pallone che avrebbe potuto creare fastidi se fosse stato raggiunto da Romeo Benetti si avventa sulla sfera.

Il problema è che anche Benetti vuole assolutamente raggiungere il pallone e lo scontro è inevitabile; Tomasini si fa male al ginocchio. Inizialmente si parla di forte contusione e non si ha sospetto o idea che la parte colpita dall’infortunio possa essere rotta. Tomasini salta alcune partite di campionato per precauzione, ma il giocatore viene chiamato per una partita della nazionale under 23. Constatando che il ginocchio, se sollecitato, torna a fare male, il giocatore viene rimesso a riposo.

Al suo posto Scopigno inventa Cera come libero moderno con funzioni propositive, oltre che difensive. Cera colpisce, impressiona nel nuovo ruolo e finisce in nazionale. Nel suo ruolo il Cagliari impiega normalmente Brugnera. E Tomasini con altro riposo sembra guarire. Ma alla ventitreesima giornata Scopigno sollecita il suo giocatore a entrare in campo contro la Roma. E il ginocchio cede definitivamente. Bisogna operare e Tomasini non potrà andare in Messico. Ma la circostanza non è dispiaciuta del tutto al giocatore in prospettiva futura, perché questo gli ha evitato il rischio di dover lasciare la Sardegna.

Il 18 gennaio 1970 il Cagliari è di scena a Vicenza. Il Lanerossi è allenato dall’ex Puricelli. La partita non è agevole, perché il Vicenza sta disputando un ottimo campionato. Ma una doppietta di Riva risolve la pratica. Una partita che molti giocatori del Cagliari anni dopo rievocheranno come fondamentale: non si pensava poter vincere e, tutto sommato, ci si sarebbe accontentati di un pari. Perciò quella vittoria vale doppio perché dà ulteriore carica: i giocatori del Cagliari possono realisticamente maturare l’idea che ce la potranno fare e ciò contribuisce a formare quella mentalità vincente, vero elemento decisivo mancato l’anno prima.

Una vittoria, dunque, pesante anche perché si riteneva da parte delle avversarie che il Cagliari a Vicenza non potesse vincere. Ma la partita di Vicenza è passata alla storia per la rovesciata di Riva. O meglio per quella rovesciata con cui quel giorno Riva siglò il suo secondo gol. Di gol su rovesciata Riva ne ha segnati altri, e forse esteticamente più belli. Ma quello di Vicenza al 70’ minuto, a detta di molti esperti, è unico, perché va contro ogni legge della fisica. Un gesto atletico unico, impossibile.

Tutto nasce da un’azione di Gori, che arriva al fondo, si libera di un avversario e crossa. Un compagno in mezzo fa da torre e rimette la palla al centro. Riva si avvita su stesso per prodursi in una rovesciata, rimanendo per qualche secondo in aria per colpire, sempre di sinistro, e mandare in rete, fra gli  esterrefatti giocatori vicentini, primo tra tutti il portiere Pianta, ex compagno di Riva qualche anno prima.

Ma teoricamente Riva non si sarebbe dovuto esprimere con quel gesto atletico, perché era praticamente impossibile con un pallone che arrivava da destra compiere quel gesto con il piede mancino. Era molto difficile far transitare la palla di quel poco che era necessario, coordinarsi in una posizione innaturale, con una torsione che avrebbe messo letteralmente ko chiunque, e colpire la sfera con quell’effetto.

Il problema era quello della sincronia dei tempi, perché il gesto atletico eccezionale, non da tutti, o solo nel repertorio per esempio di un Bruce Lee, doveva essere compiuto in tempo utile prima che la palla sfuggesse. Qualcosa di unico e forse irripetibile.

Poi, dopo che Vitali segna il gol vicentino, negli ultimi minuti Riva non manca di retrocedere in difesa per dare una mano contro i padroni di casa alla ricerca del pari. La successiva partita a Cagliari, il 25 gennaio ’70, vede i sardi segnare 4 gol al Brescia. In questo match Brugnera illumina la propria squadra con una prestazione ottimale, condita da due gol che si aggiungono a quelli di Riva e Gori. La successiva partita, vinta in casa della Lazio per 2 a 0 il primo febbraio ’70 forse costituisce il momento più alto dei rossoblù in fatto di forma.

E i padroni di casa non possono reggere. Ma i pericoli sono in agguato. All’Amsicora nel turno successivo (8 febbraio 1970) i sardi non riescono a schiodare il risultato dalle reti bianche. La partita non è delle più belle e la Fiorentina, avversaria di turno, tiene bene. Dopo di che il Cagliari perde a Milano contro l’Inter il 15 febbraio seguente. Segna Boninsegna. La Juve balza a un punto. Il momento è delicato.  Ma il Cagliari non si demoralizza. Un fine psicologo come Scopigno lo ridesta. E la squadra batte il Napoli per 2 a 0 il primo marzo 1970. L’Inter ferma la Juve a Milano e i bianconeri sono dietro di 2 punti.

La settimana successiva, l’8 marzo il Napoli frena a Torino i bianconeri con uno 0 a 0 che favorisce il Cagliari, a sua volta fermato a Roma dai giallorossi per 1 a 1. La partita a Roma non inizia bene e Peirò sorprende rossoblù.  Ma poi Domenghini, vero valore aggiunto rispetto all’anno prima, riporta il risultato in equilibrio. Il 15 marzo 1970 si assiste a una delle più memorabili partite dell’anno, forse la più importante. A Torino vanno in scena Juventus e Cagliari. La partita, anche se mancano ancora ben altre 6 giornate per concludere il campionato, è decisiva per lo scudetto.

Come aveva ben pronosticato Scopigno nell’estate del 1969, Juventus e Inter sarebbero state le rivali più pericolose in ottica scudetto. La classifica generale del campionato, prima del fischio di inizio, detta: Cagliari primo con 35 punti, Juve a due punti di distacco. Se il Cagliari esce vittorioso dal Comunale di Torino, di fatto si cuce lo scudetto sulla maglia. Un pareggio avvantaggia molto il Cagliari, che manterrebbe invariato il distacco con una partita in meno da giocare, archiviando, peraltro, il capitolo dello scontro diretto con tutti gli annessi pericoli.

La vittoria della Juve appaierebbe le due compagini in testa regalando alla Juve diversi vantaggi6 dal punto di vista psicologico.

Uno, il vantaggio di aver completato una rimonta, con il Cagliari a quel punto ripreso per il secondo anno consecutivo in campionato (il che, viceversa, non sarebbe stato edificante per i sardi), nonché  il vantaggio di essere abituata alle volate scudetto, a scapito di una squadra, la cui unica esperienza di confronto ai piani alti della classifica era stata quella dell’anno precedente, conclusasi solo con il secondo posto. Giocano due mondi contrapposti: la squadra della grande città industriale contro la squadra della provincia, che sino a quando non ci erano andati a giocare, suonava geograficamente quasi oscura persino ai propri giocatori, che, tra l’altro, ci erano pervenuti di malavoglia.

La squadra della vecchia capitale sabauda contro la squadra della regione che aveva dato il nome al Regno di Sardegna, ma che ancora era alla stregua del mondo omerico, la squadra degli Agnelli, la più ricca della “A”,  contro la squadra che doveva centellinare i propri soldi, che doveva avere il prestito della Regione Sardegna per poter trattenere Riva e che veniva sostentata dagli ex proprietari dell’Inter ( nel 1968 Ivanoe Fraizzoli era diventato nel frattempo presidente della squadra milanese al posto di Moratti) anche per impedire che i giocatori del Cagliari finissero alla Juve.

Ma non solo: si sfidavano la squadra della tradizione calcistica più profonda contro la squadra che in quegli anni stava rivoluzionando i rapporti di forza di sempre, la squadra che annoverava e annovera tifosi dappertutto contro la squadra degli emigranti della Sardegna, che a Torino venivano chiamati spesso banditi e che non di rado lavoravano alla Fiat o nell’industrie legate alla Fiat per indotto.

Il clima della partita è incandescente, infernale. Senza esagerare, si può  dire che metà dello stadio è occupato da tifosi sardi venuti da ogni dove, da Cagliari come dalla Svizzera, da Verona, come da Trento. La partita è sostenuta, combattuta, nessuno si tira indietro. Succede di tutto, l’immaginabile e l’inimmaginabile. Finisce due a due, con due rigori (uno per parte, ma probabilmente ambedue inesistenti).

E poi un autogol incredibile, ma da cineteca e un gran gol di Riva. In tutto questo l’arbitro designato per la sfida, Concetto Lo Bello da Siracusa (non un arbitro, ma l’arbitro, il Maradona degli arbitri, non un arbitro, ma l’artista del fischietto, capace di trasformare l’arena calcistica in palcoscenico per esibizioni da storia e non da cronaca) si erge ad assoluto protagonista.

Innanzitutto l’autogol. Di Niccolai; altri giocatori ne hanno messo a segno pure di più; il giocatore cagliaritano, con una certa brillante autoironia, si è potuto vantare di aver siglato quelli più belli.

E al 30’ del primo tempo Niccolai vede un traversone (eseguito da Furino) in arrivo nella propria area, naturalmente avvistato anche dal portiere Albertosi, che si è sempre detto sicuro di potere arpionare la palla con un intervento volante, se non fosse stato appunto per Niccolai che salta plasticamente in alto e colpisce di testa la sfera, temendo che potesse finire preda di due giocatori juventini stazionanti nei paraggi.

L’intervento di Niccolai vanifica quello di Albertosi, a cui il pallone, prima a portata di mani, sfugge; esso finisce all’incrocio dei pali. Fossero stati i pali della porta avversaria, sarebbe stato un bel gol. Forse è stato, invece, il più bel (e pericoloso) autogol di sempre in Italia. Per la Juve il vantaggio è insperato e quindi ancor più tonificante.

Il Cagliari per qualche minuto appare in difficoltà.  Ma non molla e si riprende, e macina azioni. Le conclusioni non sono fortunate. Ma a fine primo tempo i rossoblù pareggiano. Greatti su calcio d’angolo suggerisce al centro, Riva si libera di tre avversari e con uno stacco imperioso supera di testa il portiere juventino Anzolin. Ma la vera partita, drammatica, è nel secondo tempo.

E non è tanto una grande gara di calcio; le due squadre si equivalgono e non si ha torto a dire che il risultato di parità è stato giusto. È una gara di nervi. Il Cagliari rientra per il secondo tempo teso e preoccupato; teme che la Juve possa essere favorita da qualche episodio anche fortuito. Al 56’ alla Juve viene concesso un rigore per causa di un intervento di Martiradonna su Lamberto Leonardi. Cera ha sempre sostenuto che non ci fosse irregolarità alcuna. Probabilmente l’asserzione dell’allora capitano dei sardi è condivisibile. Il tocco del difensore barese poteva passare per peccato veniale.

Le proteste si levano, ma non è questo il punto. Albertosi è tranquillo e attento e con un intervento preciso in tuffo para il tiro Haller. Giocatori e tifosi sardi giubilano. Ma l’arbitro Concetto Lo Bello vede tutto. Annulla e fa ripetere il tiro. Questa decisione ha fatto discutere per anni l’Italia calcistica. E chi ha scritto sul punto spesso ha ripetuto la narrativa secondo la quale Lo Bello si sia voluto prendere la scena con una decisione assurda. Forse chi ha sostenuto ciò si è fatto prendere la mano dall’emozione simpatetica a favore dei giocatori sardi, la cui reazione alla decisione del fischietto siracusano è stata vibrante e commovente.

A me, da tifoso del Cagliari, non costerebbe niente unirmi alla protesta e dire che Lo Bello ha sbagliato. Ma Lo Bello non sbagliato in nulla, almeno secondo il mio modesto e dilettantesco punto di vista. Vedendo le immagini della Domenica sportiva di quella serata del 15 marzo 1970 non si può non notare come Albertosi si muova prima del tiro del giocatore della Juve.

Aver fatto ripetere il rigore è decisione giusta, non un indebito regalo alla Juve, per timore reverenziale verso la squadra degli Agnelli, o perché, come asseriscono i tifosi non juventini, e per questo anti juventini, alla medesima tutto è o sarebbe concesso e la si lascia fare. A me non riguarda della Juve; per la stessa non ho simpatia o antipatia, a parte il favore per quella che concesse alla nazionale gli eroi di Spagna ’82, con in testa un immenso, inarrivabile, in una parola, grande Scirea; ma, onestamente, nella decisione di Lo Bello di far ripetere il rigore non vedo favoritismi pro-bianconeri. E lo dico sempre da tifoso del Cagliari.

Semmai si potrebbe fare un’altra considerazione: Lo Bello, al massimo, avrebbe potuto far finta di niente e  chiudere un occhio, data la posta in gioco. Ma al di là di questo la sua decisione non mi pare scandalosa. Il rigore viene ribattuto da Anastasi che segna; e, tra l’altro, anche in questo caso, Albertosi si muove prima del tiro. Ma, in fondo, Anastasi segna facile. Ad Albertosi, udito il proposito di Lo Bello di far ripetere il rigore, crolla il mondo addosso.

Il giocatore ammetterà che la tensione di un anno si fece sentire tutta in quegli attimi. Sentiva come aver subito un’ingiustizia e si appoggiò al palo in lacrime. Albertosi può testimoniare che quando tirava Anastasi in porta del Cagliari era come se non ci fosse nessuno, tanto era sfinito dai nervi. Al secondo gol della Juventus si scatena il putiferio. I giocatori del Cagliari inseguono Lo Bello.

Riva lo insegue per ogni dove. Si è detto che il calciatore abbia rovesciato sull’arbitro un profluvio di parolacce per sostenere in buona sostanza che era un’ingiustizia che per una decisione arbitrale tutti i sacrifici operati dai giocatori per issare la Sardegna al vertice del calcio italiano venissero vanificati in quella maniera.

Onestamente non saprei se Riva avesse o meno ecceduto in parolacce; ma pare strano lo avesse fatto, considerato che Lo Bello, comunque, gli passava venti anni di età e a quei tempi certi valori si rispettavano; soprattutto mi pare strano che Lo Bello a quel punto non lo avesse espulso.

Lo Bello in ogni caso non si sentì offeso e perdonò. Riva potrà, del resto, dire, che mai come in quell’occasione rischiò la squalifica a vita. Ma riguardo a cosa si siano scambiati verbalmente Riva e Lo Bello, oggi non potremmo sentire i protagonisti; Riva è morto a gennaio scorso e Lo Bello manca da più di trenta anni. Non è il caso di riportare discorsi e parole di cui non potremmo provare la piena verità.

E pure possibile che nella concitazione e con quella tensione a Riva possa essere scappata qualche parola di troppo, ma Lo Bello, evidentemente, passò sopra, limitandosi a dire qualcosa come “pensi a giocare, che la partita è lunga” (liricamente Brera, quando scrisse l’articolo in occasione della morte di Lo Bello, avrebbe dato al dialogo tra i due una punta di letteraria coloritura con un “corri, corri ragazzo” da parte di Lo Bello, che sa di distaccato idealismo).

Cera raggiunge Riva e lo calma. E proprio Cera ha testimoniato che a un certo punto l’arbitro lo avesse avvicinato per dirgli qualcosa come “Cera, lanciate la palla lunga a Riva”. Dando per scontato che Lo Bello la abbia effettivamente pronunciata, la frase potrebbe prestarsi a due interpretazioni. La prima è che Lo Bello abbia voluto rincuorare i giocatori del Cagliari, vedendoli abbattuti, invitandoli a tentare il tutto per tutto, che nulla era perso. La seconda potrebbe dare a pensare che se avesse avuto l’occasione non avrebbe mancato di fischiare altre massime punizioni. E il Cagliari attacca. Lo Bello forse non smette mai di perdere d’occhio Riva. Al minuto 82 l’arbitro, che si trova a due passi da Riva, osservandolo, nota che Sandro Salvadore (gran libero di quel tempo, sfortunatamente da parecchi anni morto, dopo una vita di sacrifici e di impegno anche lavorando per prestare soccorso negli anni novanta in occasione di un’alluvione che colpì il Piemonte) trattiene il bomber sardo.

E fischia rigore. La massima punizione, come nell’occasione di quella antecedentemente concessa ai bianconeri, potrebbe essere valutata come eccessiva sanzione. E in questo caso protestano i giocatori in bianconero. Tira Riva, che, però,  non lancia la solita sassata fracassa-rete. Ma tiro angolato. Anzolin, che si muove – pure lui – prima dell’esecuzione, intuisce la traiettoria e tocca il pallone. Ma no lo blocca e lo stesso finisce lentamente in rete. E se fosse stato parato o Riva avesse proprio sbagliato calciando fuori? Un imperturbabile, tranquillo Lo Bello, superiore a tutto, potrà dire al calciatore che lo avrebbe fatto ripetere. Ne avrebbe avuto, del resto, il diritto, dato che Anzolin si era mosso anzitempo.

E se anche non fosse stato, lo avrebbe fatto ripetere e basta. Lo Bello era Lo Bello! La partita si chiude sul 2 a 2. In tutto questo finimondo due personaggi erano rimasti immobili e tranquilli. L’allenatore juventino Rabitti, che avrebbe detto che nulla in classifica era mutato, e Scopigno, che giudicò la partita divertente, compreso l’autogol di Niccolai, e che stimò il risultato come giusto, perché la Juve era stata superiore per ritmo, mentre il Cagliari lo era stato per tecnica. Dopo che il 19 marzo Michele Dancelli vinceva la Milano -Sanremo (era dal 1953 con Loretto Petrucci, detto “la meteora”, che un italiano non si aggiudicava la classicissima di primavera di ciclismo), il 22 marzo il Cagliari batte all’Amsicora il Verona per 1 a 0, mentre la Juventus viene sconfitta a Firenze.

La partita contro gli scaligeri è problematica perché egli stessi non intendono rientrare in Veneto a mani vuote, senza prima vendere cara la pelle. Ma gli assalti del Cagliari sono veementi e alla fine hanno ragione dei gialloblù grazie a un rigore di Riva. Il 29 marzo è 0 a 0 in casa con il Bologna e la Juve rosicchia un punto. Siamo a quattro giornate dalla fine del campionato.

Il 5 aprile il Cagliari si rifà sul Palermo, restituendo con gli interessi la sconfitta dell’andata: 2 a 0, con gol di Riva e Nené. Il 12 aprile a Cagliari è di scena il Bari, bisognoso di punti. I pugliesi fanno le barricate. Ma Riva a pochi minuti dalla cessazione della prima frazione di gioco e Gori a due minuti dalla conclusione della partita, regalano i due punti al Cagliari. E siccome la Juventus perde in casa della Lazio per 2 a 0, è  scudetto matematico. Nelle ultime due partite il Cagliari prima impatta per 0 a 0 il 19 aprile 1970 in casa del Milan in una partita giocata gagliardamente dalle due squadre e poi vince a Torino per 4 a 0 contro i granata il successivo 26 aprile.

Con due gol di Riva, uno di Domenghini e uno di Gori. Con la vittoria nella ex capitale sabauda, i rossoblù onorano i migliaia di emigrati sardi che, provenienti da ogni luogo, nelle trasferte hanno seguito sempre la squadra. E si tratta quasi sempre di operai, per i quali è un sacrificio spostarsi di qua e di là per l’Italia, dove, sovente, come saluto di benvenuto potevano ascoltare aggettivi come  “banditi” o “terroni” o sostantivi come “pastori” o “Sardistan”. E questo mentre a Cagliari nessuno si permetteva di insultare nessuno.

I giocatori del Cagliari avevano vinto anche per loro. Due, come detto, sono i gol di Riva, che diventa capocannoniere segnando 21 gol in 25 partite. Il Cagliari ha utilizzato non più di 16 giocatori: neanche il Verona, per scelta di Bagnoli, quando vincerà lo scudetto, vorrà utilizzare un numero superiore di calciatori, come non lo avrebbe fatto Bearzot per vincere i mondiali di Spagna. Il Cagliari ha anche battuto il record in un campionato a 16 squadre in ordine alle reti subite: 11 appena. Ma rispetto ai punti accumulati nel girone di andata (24), il Cagliari ne conquista 3 di meno, con una flessione, comunque, minore a quella registratasi tra la prima e la seconda parte del campionato 1968 – 69.

Dunque, così, il Cagliari ha vinto lo scudetto. Con una formazione che si potrebbe definire “asburgica”: 6 veneti, 4 lombardi, 4 toscani, 1 friulano, oltre a 1 barese, unico di origini meridionali, e a un brasiliano. Quelle persone (più di uno di loro ha potuto dire che arrivato in Sardegna ragazzo, divenendo un uomo nel Cagliari), se si guarda la loro anagrafe sono “figli” della seconda guerra mondiale. Nessuno di loro era o è sardo, otto di loro lo sono diventati a tutti gli effetti, honoris causa. Nessuno di loro nasce ricco o agiato; relativamente benestante lo era Gori. Nelle loro storie si ripetono o si intersecano parole come orfanotrofi, fabbriche, fonderie, collegi, campagne. Nessuno di loro voleva andare in Sardegna; ma quando ci arrivavano, scoprivano che i valori e la dignità dei sardi l’avevano, senza saperlo, e da sempre, come impronta del destino, nel cuore.

Con i loro sacrifici sono l’esempio, o uno degli  esempi, di quell’Italia che si rimboccò le maniche dopo la seconda guerra mondiale e risorse. In Sardegna da ragazzi sono diventati uomini attraverso il football; ma il football di allora, a parte poche eccezioni, non arricchiva in maniera esagerata. Era un ascensore sociale, semmai. E la Sardegna poi non è mai stata ricca. Quindi quella gente in linea di massima non si è arricchita; Nené è  morto povero, e negli ultimi anni della sua vita e riuscito ad andare avanti solo grazie all’aiuto dei suoi compagni del Cagliari. Perché quel Cagliari ha fatto di quelle persone una vera granitica comunità, non una squadra solamente.

Per questo quello scudetto è arrivato. Una comunità che spazzò via in qualcuno di loro quella solitudine, purtroppo imposta dal destino sin da piccoli. E solo in un contesto eccezionale, unico, poteva sorgere una siffatta comunità, formatasi in una regione dalla bellezza eccezionale. Questa circostanza eccezionale si è ingravidata con l’eccezionale evenienza che ha condotto, come già visto, determinate forze imprenditoriali e politiche a fare fronte comune in una sinergia di interessi, scommettendo sul quel Cagliari, formato da quei particolari giocatori. Si diceva che i giocatori del Cagliari non sono diventati ricchi; non lo è diventato neanche Riva, uno dei divi degli anni ’70, il supereroe. Di soldi gli squadroni del Nord gliene avrebbero dati quanti ne voleva e anche più.

È voluto rimanere in Sardegna; lì ha ri-trovato la famiglia che il destino gli aveva portato via. Di famiglie gliene ha regalate tante la Sardegna: la squadra, i pescatori di Cagliari, i pastori, la gente comune ecc. . Tante comunità, di cui una è stata la squadra dello  scudetto. Altrove non le avrebbe avute. Alla Sardegna ha dato tanto, dalla Sardegna ha avuto: e questo basta. In questo contesto umano, Cagliari può fare ancora un’altra cosa: dedicargli già da adesso lo stadio. Un fatto simbolico, ma, di valore. 

Per altro verso,  quell’impresa, quello scudetto, scrisse Gianni Brera opportunamente, “rappresentò il vero ingresso della Sardegna in Italia. Fu l’evento che sancì l’inserimento definitivo della Sardegna nella storia del costume italiano. … La Sardegna aveva bisogno di una grande affermazione è l’ha avuta con il calcio, battendo gli squadroni di Milano e di Torino, tradizionalmente le capitali del football italiano.

Lo scudetto ha permesso alla Sardegna di liberarsi da antichi complessi di inferiorità  ed è stata un’impresa positiva, un evento gioioso”. E gioia e felicità fu in tutta la Sardegna. Finito quel campionato, si giocavano i mondiali messicani. Tra i 22 azzurri 6 provenivano dal Cagliari: Albertosi, Cera, Domenghini, Gori, Niccolai, Riva.

Sarebbero potuti essere 7 se non si fosse infortunato Tomasini e, addirittura, 9 se Valcareggi avesse portato in nazionale Martiradonna, come da promessa antecedente, e se lo stesso CT avesse dato retta a  Brera, che consigliava l’arruolamento per Messico 1970 di Greatti. 

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