Storie di Calcio

Maradona, ovvero “Il Genio della Lampada”

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GLIEROIDELCALCIO.COM (Antonio Mattera) –

UNA LAMPADA CAMUFFATA DA RADIOLINA

«Il più grande campione che ho visto giocare è Diego Armando Maradona. Credimi, figlio mio, non esisterà mai più, nei secoli dei secoli, un altro come lui. Ha fatto dell’imperfezione la perfezione. Piccolo, gonfio, dedito ad albe stanche, svogliate e sbagliate, vittima di falsi amici e della volontà di andare oltre ogni regola, Maradona ha trasformato un semplicissimo pallone di cuoio in uno scrigno di bellezza» (Darwin Pastorin).

Cosa rappresenta Diego Armando Maradona per uno della mia età, over 50, e che non tifa Napoli?

Forse ciò che sono stati Pelè, oppure Di Stefano, oppure Puskas per mio padre: il migliore in assoluto.

O forse no, troppo semplicistica la definizione

Perché, se è vero che mio padre mi narrava le gesta di Puskas, Di Stefano o Pelè come se fossero somme divinità del calcio discese in terra a mostrar meraviglie in un rettangolo verde, e intanto ho potuto godere degli ultimi sprazzi dell’ultima divinità, un certo Johan Cruijff, è altrettanto vero che dagli eventi che scaturiscono in seguito da quella mattina del 5 Luglio c’è stato solo Diego Armando Maradona nei miei pensieri.

E anche in quelli di mio padre.

Io cresco, bambino, in un momento difficile del calcio italiano, anni di dolori in campo (la morte di Paparelli, Curi) e fuori (il calcioscommesse).
Mi ritrovo, giovincello, in un periodo magico: siamo Campioni del Mondo, Campioni d’Italia con la mia Roma, tutto il nostro campionato è un magico Mondo di Oz dove ogni domenica si sfidano i migliori maghi al mondo: Zico, Falcào, Rumenigge, Antognoni, Conti, Platini, Boniek per dirne alcuni.

L’arrivo di Diego Armando Maradona, in questo campionato, è la lampada di Aladino portata in un mondo magico.

Tu sfreghi , la domenica, la lampada e il genio, di Maradona, ti esaudisce il desiderio!

Ecco cos’è Diego per me.

Non il migliore, non mi piacciono le classifiche d’ogni specie, più semplicemente è quel desiderio che diventa realtà, fosse pure contro la tua squadra.

È quello sbuffo da artista che dipinge l’impossibile, prima o dopo averlo immaginato non è dato sapere, ma è lì anche se ancora non lo vedi, ma ne percepisci l’arrivo, sai che comparirà su quella tela.

La domenica fatta di messa, pranzo e radiolina diventa ora, per chi ama il calcio al di là del tifo, un rito pagano narrato in un’edizione perduta de “le Mille e una notte”.

La radiolina, eccola la lampada magica, e il tuo orecchio incollato è la mano che sfrega, in attesa che il genio compaia e esaudisca quel goal che hai sognato, quel gesto tecnico che hai solo immaginato, quella lucida pazzia calcistica che non oseresti confessare.

«Di Maradona basta dire che tutto quel che faceva su un campo di calcio era perfettamente irragionevole» (Jorge Valdano)

E il genio Maradona è talmente potente che prevede il tuo desiderio, lo dipinge in campo prima che tu lo chieda a lui, ma è proprio come lo avresti sognato tu, se lui te ne avesse dato il tempo.

Direttamente da corner, uccellando il povero Giuliani da centrocampo, a filo d’erba con la testa, facendo sbattere la testa a Tacconi contro il palo con una punizione che riscrive le leggi della fisica: il genio è là, in quella lampada dalla forma di radiolina e la domenica pomeriggio è il giorno del suo rito, quello nel quale esaudisce i desideri di chi ama il calcio.

Diego è creatività, che per definizione (Cit. Domenico De Masi) è un connubio di fantasia e concretezza.

Ogni gesto tecnico dell’argentino non nasce solo per soddisfare il palato del pubblico, fine a sé stesso, ma nell’ottica di un progetto più grande, chiaro, al momento dell’eseguirlo, solo nella mente di Maradona.

Saranno gli eventi che si mettono in moto che riveleranno il fine anche al pubblico.

E così la traiettoria impossibile, il lancio ad occhi chiusi in terre di nessuno, il dribbling su uno, due, tre, quattro, cinque avversari, finiscono per trovare la sublimazione della forma nella sostanza del risultato ottenuto.

Per dirla alla Gianni Brera:

«Maradona è uno sgorbio divino, magico, perverso: un jongleur di puri calli che fiammeggiano feroce poesia e stupore (è dei poeti il fin la meraviglia). Talora uno dei suoi piedi serve fulmineamente l’altro per una sorta di paradossale ispirazione atta a sorprendere: ma quando vuole, questo leggendario scorfano batte il lancio lungo che arriva, illumina, ispira: capisci allora che i ghiribizzi in loco erano puro divertissement: esibizione per i semplici: se il momento tecnico-tattico lo esige, in quelle tozze gambe animate dal diavolo entra solenne il prof. Euclide. E il calcio si eleva di tre spanne agli occhi di coloro che, sapendolo vedere, lo prediligono su tutti i giochi della terra».

Ecco cos’è Maradona per me: non il migliore, perché lui non concorre nella categoria dei maghi, di quelli capacissimi di inventarsi qualcosa in ogni momento, ma è l’unico partecipante in quella dei geni, di quelli che disegnano il tuo desiderio e lo realizzano, persino prima che tu lo possa solo sognare.

IL GENIO A NAPOLI

«San Genna’, non ti crucciare, tu lo sai ti voglio bene. Ma na fint’ ‘e Maradona squaglia ‘o sangue rint’e vene!» (Luciano De Crescenzo)

Diego arriva a Napoli il 4 luglio 1984, un giorno prima della sua ascesa al San Paolo, della sua incoronazione a genio deputato a realizzare i sogni di un intero popolo.

Ha lo stesso sorriso che da qualche giorno illumina una intera città, spesso dolente per delinquenza, malaffare, immondizia, tutte ferite che si porta da decenni dietro, con la dignità di chi per primo si è liberato dal giogo nazista e che poco più tardi di un secolo prima era capitale di un regno evoluto e ricco e poi depredato.

Ci sono ancora le crepe del terremoto, visibili nelle mura delle case e avvertibili negli animi della gente.

Napoli, però, ora è in sé tutto un sorriso: sorride dal Golfo di Napoli, attraverso le grida dei pescatori che tirano su il pescato, a Posillipo dove sotto la sua luna si giurano amore eterno le coppie e progettano un figlio di nome Diego, dai quartieri vip del Vomero a quelli più fatiscenti come i numerosi “bassi” napoletani.

La città è già un fermento, il Vesuvio tace in disparte per timore che la forza esplosiva di un popolo, e una lava umana fatta di sentimenti e passioni, possa travolgerlo se solo osasse brontolare.

In quei giorni di luglio persino lo schiamazzo del traffico congestionato sembra seguire un ritmo armonico, una gioiosa overture preludio di gioia e soddisfazioni.

L’economia si muove già su Diego, dal cibo (linguine alla Diego, pizza Maradona) agli accendini, dai palloni ai santini, dai calzini alle parrucche ricciolute, dalle magliette ai biglietti dai bagarini per un evento che già si sa memorabile: non c’è attività, dal salone da barbiere alla bancarella di cassette audio, dal ristorante al negozio di ortofrutta, che non leghi la sua economia all’arrivo del genio magico.

Per dirla alla Gianni Mura, anni dopo, «Maradona non è il capitano del Napoli, ma di Napoli»

Quel riccioluto mancino, nato a Lanus il 30/10/60, che aveva incantato il mondo con la maglia della “Selecion” ai Mondiali Juniores di Tokyo nel 1979, e messo paura all’Italia di Bearzot in quel di Spagna ’82, salvo poi essere esorcizzato dal “libico” Claudio gentile, baffoni da cattivo e magliette strappate, mette così in ombra il re di Napoli, il Vesuvio e manda in delirio una città.

Una città che chiede al suo genio della lampada di esaudire subito un desiderio: riuscire a battere almeno la Juventus, la nemica storica, anche per genesi antropologica.

E non è un’offesa a chi tifa bianconero, nossignore, perché quella missione gli verrà riconosciuta persino dall’avversario.

«Durante una partita Juventus-Napoli nello spogliatoio ci dicemmo che l’unico modo per fermarlo era menargli di brutto. Ma dopo dieci minuti in campo ci guardammo e ci dicemmo che no, era troppo bello vederlo giocare» (Zbigniew Boniek)

Lui farà di più: non solo batterà la Juventus, ma porterà a Napoli due campionati, una Coppa Italia, una Supercoppa italiana e una Coppa Uefa.
Non arriva in un club, allora, di primissimo piano.
Forse, però, nell’unico che crede in lui.
Girano strane voci, su notti, compagnie e vizi strani che si dipanano sulle ramblas di Barcellona.
Ma per Antonio Juliano, dirigente del Napoli, è LUI, Diego, che può far sognare Napoli.

Tanto è forte, nel mitico Totonno napoletano, la convinzione che l’argentino sia il genio della lampada del quale ha bisogno Napoli e il Napoli che fa spallucce quando Ferlaino gli raccomanda di valutare bene l’operazione «perché con i soldi che sarebbe costato Diego si sarebbero potuti prendere cinque calciatori».

Gli scrive i nomi in un biglietto, Juliano sorride, piega quel biglietto, lo mette in tasca e va avanti per la sua strada.

Ancora oggi non ha mai voluto dire il nome di quei 5 giocatori.

Per Juliano, Diego Armando Maradona è nel destino di Napoli.
E forse Diego Napoli l’ha nel destino dalla nascita.
Pensateci bene, quel bambino ritratto che palleggia nelle strade di Lanus non somiglia tanto ad uno “scugnizzo” qualsiasi di Napoli?
Dopo due salvezze stentate, Napoli si aspettava dal Napoli un rilancio in grande stile e Corrado Ferlaino con al fianco Antonio Juliano come dirigente, ex bandiera e capitano del calcio partenopeo, decidono di non deludere le attese di un’intera città.

Al loro fianco la disponibilità di alcuni istituti di credito, ben consci che l’operazione potrebbe rivelarsi una incredibile cartina di tornasole.

Qualcuno afferma che ci fosse anche altro, ben più pericoloso di una banca, a fornire quei miliardi.

Non è questo però il luogo per discuterne.
È l’estate del 1984 ed arriva Daniel Bertoni, attaccante argentino, per sostituire il funambolico brasiliano Dirceu che pure male non aveva fatto la stagione precedente, segnando gol decisivi per la salvezza; tuttavia, il grande colpo è nell’aria.

Il grande colpo risponde a un solo nome, Diego Armando Maradona
Juliano opera, sull’allora vicepresidente del Barcellona Gaspart, un pressing asfissiante come era solito fare in campo con gli avversari.

Tenacia italiana e sagacia tutta partenopea per arrivare a dama.

L’aneddotica sulla vicenda narra che nacque tutto da una errata convinzione, diciamo pure un disguido letterale; infatti si racconta che il numero due del club blaugrana si convinse a trattare con Juliano solo perché, all’inizio, credeva di avere a che fare con il diesse juventino Giuliano.

Sarà lo stesso Ferlaino a spiegare come andarono le cose, anni dopo:

«Juliano aveva contattato il Barcellona per un’amichevole. Accettarono, precisando che Maradona non ci sarebbe stato per un infortunio. Era falso, era in rotta con il club. Così partimmo. Ci chiesero 13 miliardi di lire, convinti che non avessimo i soldi. Ed era vero… finché Enzo Scotti, il sindaco, mi mise in contatto con Ferdinando Ventriglia, presidente del Banco di Napoli. Una trattativa infinita, chiusa all’ultimo minuto».

La trattativa è lunga ed estenuante, sempre percorsa sulla sottile linea che demarca una gioia da un fallimento, e così si arriva sino all’ultimo giorno di calciomercato, con gli avvoltoi fatti di inchiostro e calamaio già pronti a dividersi le carni di Juliano, Ferlaino e del Napoli in caso di fallimento di quell’operazione.

Che per molti era impossibile allora come pensare di portare Messi all’ Udinese oggi: eppure, allora, l’Udinese era stata capace di vestire di bianconero un certo Zico!

Altro calcio, davvero!
Ferlaino dal canto suo, narrano le cronache, depositò in Lega prima un contratto in bianco e poi, fuori tempo massimo, con la complicità di una guardia giurata, lo sostituì con quello firmato dal Pibe de Oro.
Fatto sta che, all’ultimo squillo del calciomercato per la stagione calcistica 1984-85, Diego Maradona era del Napoli!
Ad accoglierlo al “San Paolo” il 5 Luglio del 1984 sono 70.000 tifosi sognanti e una intera città in delirio.

Leggere scosse sismiche si avvertono dagli spalti del San Paolo, il Vesuvio giura che lui non c’entra niente.

Persino San Gennaro, viceré di Napoli da sempre, capisce di essere stato scavalcato, perché quello scugnizzo argentino ha la capacità di «squaglià ‘o sangue rint’e vene!» e fare miracoli ogni domenica.

Lui palleggia, calcia un pallone verso il sole di Napoli come ad omaggiarlo, e poi segna il primo goal in sala stampa:

«Farò di tutto per ripagare, in parte, l’affetto di questa gente»

Napoli è città di mare, ma quella di Diego non è promessa di marinaio: ci riuscirà, eccome!
In panchina, in quel Napoli, c’è Marchesi, non proprio un allenatore da calcio spettacolo, ma solido e serio, anche se i tifosi napoletani gli imputano quell’aria sempre troppo triste.
Si parte da Verona, dove il panzer Briegel si attacca alle caviglie di Diego.

Sembra lo scontro calcistico tra Davide e Golia fisicamente invertiti, il campo dirà che l’umile Davide Briegel annulla il gigante calcistico Golia Diego, e pone il primo dei 43 tasselli per il Verona Campione d’Italia, mentre Diego si dovrà accontentare, a fine stagione, di un ottavo posto, lontano da ogni sogno di gloria.

La settimana dopo, il primo centro in azzurro, contro la Sampdoria su rigore, non basta a battere i blucerchiati.
Passano altri 15 giorni ed arriva il primo gol su azione, contro il Como.

La lampada magica incomincia a poco a poco a funzionare, riempita come era prima di polvere catalana composta da infortuni, polemiche, qualche vizio di troppo.
E così, a Roma contro la Lazio, Diego è semplicemente straordinario: da manuale del calcio lo stop e tiro in rete su assist di Bertoni.
Incomincia da quel gol ( a fine campionato saranno 14, con Platini capocannoniere a 18) la leggenda partenopea di Maradona e di quel Napoli.
E incominciano, per tanti amanti del calcio come me, le domeniche con una lampada magica, camuffata da radiolina, attaccata all’orecchio.

«Giocare contro Maradona è come giocare contro il tempo perché sai che, prima o poi, o segnerà o farà segnare» (Arrigo Sacchi)

 P.s: prima che dimentichi: auguri, Diego, ovunque tu sia!

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