La Penna degli Altri

Osvaldo Bagnoli

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RIVISTACONTRASTI.IT (Marco Metelli) – Bagnoli sei campione d’Italia e non mi dire che non te lo meriti” dice Giampiero Galeazzi, che si fionda immediatamente verso l’allenatore dell’Hellas Verona, non appena il fischio finale della partita, giocata al Comunale di Bergamo, assegna un incredibile Scudetto al club gialloblu. Il mite Osvaldo guarda l’inviato della Rai con un sorriso quasi imbarazzato, non certo con il piglio di chi ha appena compiuto un miracolo calcistico e non a caso Gianni Brera lo ha ribattezzato Schopenhauer. Lo sguardo del mister, semmai, contiene la quieta soddisfazione dell’artigiano che ha visto maturare i frutti di un lavoro iniziato anni prima, in un giro d’Italia partito dalla Bovisa, il quartiere della periferia milanese tanto dedita alla fatica quotidiana.

Che Verona fosse nel suo destino, Osvaldo l’aveva capito quasi trentanni prima, nell’esperienza da calciatore in gialloblu, durante la quale avrebbe conosciuto sua moglie e programmato un futuro da passare proprio lì, in riva all’Adige. Il progetto rimaneva vivo anche una volta lasciato il Veneto per giocare a Udine, Catanzaro, Ferrara e chiudere la carriera a Verbania, dove gli veniva offerto anche un posto di lavoro nella legatoria della zona, per apprendere il mestiere da esercitare una volta tornato nella città scaligera.

Proprio nella fase finale della carriera c’è la reunion con Pippo Marchioro, suo amico dai tempi dalle giovanili del Milan, in cui tra gli altri c’erano anche Radice e Trapattoni. Nel verbano, Bagnoli impara dal buon Pippo una regola che riterrà fondamentale nella professione di allenatore, cioè che “non conta il modulo, contano i giocatori”. Appesi gli scarpini al chiodo, Osvaldo prova ad allenare, perché la legatoria può aspettare, ma l’inizio sarà una falsa partenza, di quelle che possono stendere, dato che un esonero a metà stagione dalla Solbiatese, squadra del varesotto militante in serie C, non è un ottimo biglietto da visita per sperare in future proposte di lavoro.

La seconda e decisiva opportunità per allenare arriva proprio da Marchioro, autentico uomo del destino, che chiama l’amico per fargli da vice al Como nel 1974, nel campionato cadetto che vedrà i lariani promossi in Serie A. Nell’annata successiva, Bagnoli sceglierà di non seguire Marchioro al Cesena, ma resterà ancora a Como a fare il vice, per poi assumere i gradi di primo allenatore, a stagione in corso, ottenendo una preziosa conferma pur senza evitare la retrocessione.

In un 1976 che vede i suoi compagni del vivaio rossonero diventare degli allenatori ormai affermati, con Radice campione d’Italia col Torino, il Trap sulla panchina della Juve e Marchioro al Milan, Osvaldo fa il pendolare tra la Bovisa e Como, sentendosi anche un privilegiato, pur allenando una squadra di Serie B. Poi, però, fare il pendolare non basta più, perché per mantenersi col futbol bisogna andare a Rimini o addirittura a Fano in C2 e c’è poco da fare gli schizzinosi per Osvaldo, che lì ottiene una promozione valevole la chiamata del Cesena, per tornare almeno tra i cadetti.

L’esperienza in Romagna dura un biennio e culmina con la promozione nella massima serie nel 1981, ma il ritorno tra i grandi per Bagnoli è rimandato perché nel frattempo lui ha già scelto di accettare la proposta, irrinunciabile, dell’Hellas. Dopo più di vent’anni d’attesa, finalmente Verona, per concludere quella che Gianni Brera avrebbe poi definito una “peregrinazione da pedatore di ventura”, interrotta non per fare il legatore presso la Mondadori, ma per allenare i gialloblu, finiti ai margini del grande calcio una volta rimasti orfani di Gianfranco Zigoni. Sì, per non perdere quell’occasione vale la pena restare un altro anno in Serie B.

Nella società guidata dal presidente Celestino Guidotti, con Emiliano Mascetti direttore sportivo e trait d’union tra allenatore e vertici del club, può prendere il via l’opera d’artigianato e assemblaggio del libro realizzato dal mister, e legatore, Bagnoli. Nell’anno della pronta risalita in Serie A, la squadra può già contare su delle fondamenta, a partire dal portiere Claudio Garella, conosciuto più per le sue “garellate” che per essere una garanzia tra i pali, ma che ora è in cerca di riscatto, dopo essere stato bollato come inadatto a giocare nella massima serie e quindi spedito dalla Lazio a giocare in B, nella Sampdoria, sul finire del decennio Settanta.

Un altro pilastro, forse il più importante, è il libero Roberto Tricella, scartato dall’Inter appena ventenne, che con Osvaldo in panchina diventa subito leader, tanto da assumere i gradi di capitano a soli ventitre anni. “Lei, così giovane, è il capitano?”, gli chiederà un sorpreso Karol Wojtyla, durante la visita del club alla residenza estiva del pontefice, nel settembre ’82, alla vigilia della sfida contro la Roma, nella prima trasferta dell’Hellas al ritorno tra i grandi.

Antonio Di Gennaro è la terza colonna, e cervello del gioco, a cui Bagnoli affida le chiavi del centrocampo, sin dal primo anno tra i cadetti. Anche lui, come gli altri due, è uno scartato, in questo caso dalla Fiorentina, dove è praticamente impossibile trovare spazio se hai un ruolo simile a quello di Giancarlo Antognonie quindi ecco la cessione al Perugia, per poi approdare a Verona e, grazie al mister della Bovisa, scoprirsi finalmente protagonista.

Nei primi due anni di serie A, i gialloblu si piazzano al quarto e al sesto posto, diventando la mina vagante del campionato. Il Bentegodi rimane inviolato contro le avversarie più forti di quei primi anni ’80: la Juventus di Platini, abbattuta due volte su due, e la Roma di Falcao, con un pari e una vittoria. Le due finali di Coppa Italia, perse proprio contro bianconeri e giallorossi, confermano la bontà del lavoro di mister e società, che sono già andati oltre le attese della tifoseria.

Nel frattempo, fra i ragazzi allenati da Osvaldo si è aggiunto Pietro Fannaala destra di grandi promesse parzialmente tradite negli anni alla Juventus, catapultato in un ambiente in cui spesso si è sentito ingabbiato, con la presenza di tutti quei campioni e dai precetti di un Trapattoni che lo voleva più presente a centrocampo, in fase di contenimento, piuttosto che in attacco a liberare il proprio estro.

L’estate 1984 porta in dote al Napoli Diego Armando Maradona, Rummenigge all’Inter, Socrates alla Fiorentina, Junior al Torino, con Zico all’Udinese già da un anno, consacrando il campionato italiano come l’Eldorado del calcio mondiale. In mezzo a questa parata di stelle, la coppia Bagnoli-Mascetti individua nel roccioso Hans Peter Briegel, terzino sinistro della Germania, e nel Cavallo pazzo Preben Elkjaer Larsen, attaccante danese, i personaggi adatti per rinforzare un Verona che possa condurre un’annata tranquilla, nella medio-alta classifica.

“Bisognava valutare anche la persona, perché doveva stare con un gruppo di persone che dovevano aiutarsi tra di loro, non essendoci il numero uno. E noi a Verona centrammo questo obiettivo”.

Il 16 settembre, per la prima giornata, il copione prevede un avvio col botto, perché al Bentegodi arriva il Napoli di Maradona, con l’Hellas vittima sacrificale designata. Il mite Osvaldo però prepara un’accoglienza non proprio delicata per il Pibe de Oro, assegnando a Briegel, riadattato come mediano, il compito di marcarlo a uomo. Con la costante presenza del teutonico, Diego è intrappolato e il Verona gioca una grande partita chiusa con il 3-1 finale.

Un mese dopo, la caduta della Vecchia Signora nella provincia veneta fa ancora più rumore. Il 2-0 epico che chiude il match, con un Elkjaer lanciato all’impazzata nella prateria del Bentegodi, che continua la sua corsa anche dopo aver perso la scarpa destra, fa sognare al pubblico gialloblu la possibilità di vivere qualcosa di grande. L’Hellas guarda tutti dall’alto verso il basso, ma Bagnoli, a ogni domanda sugli obiettivi della squadra, parla di salvezza anticipata ed è probabile che sia sincero visto che è ancora troppo presto.

La prima sconfitta arriva solo all’ultima di andata, ad Avellino, ma il Verona è ancora là davanti al gruppo, anche se tutti aspettano l’imminente, e inesorabile, caduta della Cenerentola non invitata al ballo delle grandi. Osvaldo anche nei momenti difficili non alza mai la voce, mai sopra le righe con i suoi ragazzi, non spetta a lui il ruolo del padre padrone, e così a febbraio i gialloblu passano indenni le prove del fuoco contro Inter e Juventus, con due pareggi su rimonta, per poi battere Roma e Fiorentina in vista dell’arrivo della primavera.

Nonostante la sconfitta interna contro il Torino, l’Hellas in aprile guida ancora la classifica, e lo fa da settembre. Adesso nello spogliatoio pure il mister della Bovisa inizia a parlare, sottovoce, di un grande traguardo, ma davanti alla stampa meglio tenere la bocca cucita. Poi il match sofferto del Bentegodi alla quartultima, contro una Lazio avviata alla retrocessione e risolto solo a un quarto d’ora dal termine da un gol di Fanna, fa capire a tutti quanti che per la realizzazione del miracolo manca davvero pochissimo.

L’ultimo punto per la certezza matematica è da conquistare nella trasferta di Bergamo, il 12 maggio 1985. In caso di passo falso c’è sempre l’ultima in casa con l’Avellino, ma quella deve essere solo una giornata di festa. L’Hellas vuole chiudere la pratica contro l’Atalanta, in uno stadio colorato per la metà di gialloblu, con le migliaia di tifosi scaligeri giunti fin lì nella processione lungo l’autostrada A4, per celebrare il giorno più importante nella storia del Verona.

La rete di Elkjaer, che pareggia i conti dopo il vantaggio dei nerazzurri, è il timbro sullo Scudetto e un marchio indelebile che stabilisce un prima e un dopo per quel gruppo assemblato dall’artigiano Osvaldo Bagnoli. In quella che era considerata una squadra di scartati c’è anche Domenico Volpati, il mediano che a 33 anni suonati non ha saltato una partita e che solo un paio d’anni prima veniva acquistato dal Brescia in Serie B. È proprio Volpati durante la festa a dire ai compagni: “Oggi non ci rendiamo conto di quale impresa abbiamo realizzato, ma sarà il corso del tempo a farcelo capire”.

Il miracolo non è replicabile, ma Osvaldo resta per altre cinque stagioni alla guida dell’Hellas, che ha l’occasione di disputare Coppa dei Campioni e Coppa Uefa, fino alla crisi societaria nel 1989-90, che segna la fine di un’epoca magica per il club gialloblu. Dopo quasi un decennio, per Bagnoli è il momento di lasciare, temporaneamente, Verona. Lo attende l’affascinante sfida di guidare il Genoa, proprio nel periodo in cui i cugini blu-cerchiati stanno per raggiungere i vertici del calcio italiano ed europeo.

Dopo un avvio stentato, con una sola vittoria nelle prime nove giornate, il mister è già sulla graticola, ma il mite Osvaldo si rivela l’uomo giusto per gestire la parte più tormentata, e abituata alle delusioni, del tifo della città di Genova. La stracittadina del 25 novembre è il punto di svolta della stagione rossoblu. Una strafavorita Sampdoria viene abbattuta da un gol su punizione del difensore brasiliano Branco, che sigla il 2-1 finale ed entra nella mitologia dei derby della Lanterna. Il fermo immagine del gol diventa così una cartolina di auguri, che i tifosi genoani mandano ai cugini in vista dell’approssimarsi delle feste natalizie.

Il Grifone inizia una marcia che lo proietta fino al quarto posto, una cosa mai vista nel secondo dopoguerra, da chi soffre per il Vecchio Balordo. In attacco Tomáš Skuhravý e Carlos Alberto Aguilera formano la coppia più assortita del campionato, con un fisico così stentoreo il giocatore ceco quanto piccolo quello del rapido uruguagio. Il piazzamento finale vale la qualificazione alla Coppa Uefa per Capitan Gianluca Signorini e compagni. Un risultato storico per il popolo rossoblu, che riesce persino a digerire un altrettanto storico Scudetto vinto proprio dalla Samp nel 1991.

Il Genoa si presenta da cenerentola alla sua prima apparizione in una competizione europea, ma Osvaldo ne sa qualcosa di outsider che provano a scalare le gerarchie. Quindi ecco il primo turno passato in extremis contro il Real Oviedo, a cui seguono le vittorie contro Steaua e Dinamo Bucarest che portano il Grifone a un inatteso quarto di finale, da giocarsi contro una nobile del football continentale come il Liverpool.

Le due settimane di fuoco, nel marzo 1992, si aprono in un Ferraris vestito a festa, in cui il Genoa riesce a imbrigliare i Reds con le reti di Fiorin e Branco, su punizione, che fanno esplodere Marassi. Al ritorno, nel tempio di Anfield, il Grifone è costretto alle barricate per arginare gli attacchi senza sosta degli inglesi e il portiere Braglia è una saracinesca. Il caro e vecchio catenaccio frutterà due reti da manuale firmate dal Pato Aguilera e una sola misera rete per il Liverpool, che si vede espugnare Anfield per la prima volta nella storia da una squadra italiana.

Il sogno si interrompe in semifinale, contro un Ajax che nega la possibilità di vedere un epilogo tra Genoa e Torino. Poi, sul finire di stagione, emergono divergenze tra società e allenatore riguardo ad alcuni giocatori da cambiare per l’annata seguente, e allora l’esperienza genovese di Bagnoli giunge prematuramente alla conclusione. Per il mister della Bovisa si prospetta l’occasione di tornare nella sua Milano, sponda nerazzurra.

“Se un insegnante non sopporta più i suoi allievi è meglio che smetta”.

In un’Inter depotenziata dei tedeschi Matthaüs, Klinsmann e Brehme, Osvaldo guida il Biscione al secondo posto, dietro l’irraggiungibile Milan di Capello, facendo di necessità virtù, con Schillaci lontano parente di quello delle notti magiche, con la meteora Pančev e il solo Ruben Sosa come innesto di alto livello. Il secondo anno sulla panchina nerazzurra sarà segnato da una campagna acquisti fatta senza tenere conto del parere di Bagnoli, dal pessimo rapporto con i nuovi arrivi Bergkamp e Jonk, e da un rendimento altalenante della squadra. Nel febbraio ’94 arriverà l’esonero, il secondo della carriera, come ai tempi della Solbiatese.

Osvaldo avrebbe almeno voluto completare quella stagione, ma il sentore di un mondo che sta cambiando gli giunge sempre più forte. No, il calcio che va avvicinandosi agli anni duemila non fa più per lui. Non fa per lui dover trattare i giocatori come bambini viziati, o dover pensare alla loro vita extra-campo, dover fare lo psicologo o il padre padrone a seconda delle necessità. Non basta più la sua artigianalità nell’assemblare una squadra e non basta più un solo sguardo per capirsi coi suoi ragazzi. In pratica è ormai inadeguato, come gli viene rinfacciato.

“A volte la memoria mi tradisce […] Eppure, ricordo molto bene i volti dei veronesi durante le feste per lo scudetto. Avevano in corpo una gioia tale che noi di quell’Hellas ce la siamo portati dentro per sempre”.

Anche di fronte alle numerose offerte che gli arrivano, Osvaldo Bagnoli, a 59 anni, dice stop, uscendo dalla porta di servizio di un’ambiente che si dimenticherà in fretta di lui. Il ritorno a Verona, stavolta definitivo, è l’occasione per essere riabbracciato da una città che di dimenticarsi di lui non ha nessuna voglia. Come non ne hanno voglia i giocatori di quell’Hellas, che da scartati divennero campioni, coi quali Osvaldo si ritroverà per anni una volta a settimana, a giocare ancora insieme a calcio. Insomma, la tifoseria e gli ex calciatori gialloblù cercheranno di ricordare sempre allo Schopenhauer della Bovisa il valore della sua opera, e riusciranno persino nell’impresa, non meno ardua, di farlo sorridere, di tanto in tanto.

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