Storie di Calcio

Enrico Sardi, Aristodemo Santamaria e il “sottil morbo” del professionismo: nasce il calciomercato

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GLIEROIDELCALCIO.COM (Pierpaolo Viaggi) – Nell’estate del 1913 il Genoa rischia di dover porre fine alla sua ventennale storia. Si trova di fronte ad una situazione drammatica non per i risultati sportivi o la gestione societaria ma per questioni di natura giuridico-sportiva, in quanto pesantemente messo sotto accusa per professionismo.

Era un’epoca storica in cui il professionismo non veniva assolutamente ammesso nelle discipline sportive (solo un anno prima, nel 1912, l’americano Jim Thorpe si era visto squalificare e revocare le medaglie d’oro vinte nel pentathlon e nel decathlon alle Olimpiadi di Stoccolma proprio con questa accusa) e neppure il calcio si sottraeva alla regola. Se in Inghilterra il professionismo era stato considerato lecito sin dal 1885, nel resto d’Europa vigeva la concezione romantica per cui tutte le discipline sportive dovevano servire ad elevare ed arricchire interiormente i praticanti. In realtà, molti calciatori ricevevano sottobanco pagamenti in contanti. Emanuele Santi, a pag. 61 del suo libro “Il portiere e lo straniero”, rivela che in Francia, subito dopo la fine della guerra, la Federazione calcistica inflisse una squalifica di due anni al presidente dell’Olympique Lille, Henri Jooris, colpevole di aver partecipato ad un sistema di retribuzione indiretta a favore di alcuni tesserati del suo club. Era il cosiddetto fenomeno del dilettantismo sporco.

Questa situazione, almeno nel calcio, in Italia si protrarrà sino al 2 agosto 1926, quando la Federazione aprì al professionismo con il famoso documento noto come Carta di Viareggio che riordinò l’organizzazione del calcio italiano e, di fatto, lo sottomise al regime fascista, imponendo tra l’altro alle società di far sottoscrivere ai calciatori speciali contratti economici su moduli già predisposti.

Un’autentica rivoluzione, soprattutto nella mentalità di chi seguiva, per passione o per lavoro, la sempre più emergente disciplina sportiva.

Il caso Sardi-Santamaria, e cioè il passaggio dietro corresponsione di denaro dei due giocatori della società genovese Andrea Doria all’altra più famosa società cittadina, il Genoa, viene comunemente indicato come il primo caso di “professionismo” del calcio italiano. Probabilmente il più noto, data anche la fama dei due giocatori coinvolti ma non il primo in quanto preceduto di pochi mesi da altro passaggio dietro corrispettivo di un giocatore – Attilio Fresia – sempre dalla Doria al Genoa.

L’eco suscitata scatenò le polemiche riguardo al pericolo del “professionismo”.

In particolare la Gazzetta dello Sport gli conferì grande rilievo, aprendo addirittura un dibattito che coinvolse sulle pagine del giornale personalità di spicco dell’ambiente calcistico nazionale.

Si iniziò l’11 giugno quando, sotto il titolo “Le importantissime deliberazioni della Federazione Italiana”, a corollario del comunicato ufficiale che riportava le sanzioni adottate dal Consiglio direttivo della Federazione Italiana Giuoco del Calcio a carico della Società Genoa (mille lire di multa) e del calciatore (dichiarato “professionista” e perciò squalificato per due anni), il giornale faceva seguire il seguente commento:

“Non conosciamo gli elementi sui quali la Federazione ha basato i suoi giudizi ed il verdetto ultimo che è senza dubbio gravissimo e che può parere così ex abrupto anche esagerato. Così come non sappiamo dell’esclusione all’ultima ora dei nazionali Sardi e Santamaria, che vogliamo sperare sia stata provocata unicamente dall’impossibilità dei due giuocatori di abbandonare le loro abituali occupazioni. Il colpo dato al professionismo dovrebbe essere mortale. Di ciò nessuno avrà a dolersi. Si uscirà una buona volta dalla menzogna e da quel penoso dubbio che, giustificato per molti, incombeva ingiustamente su altri non pochi e lo sport del calcio uscirà notevolmente rafforzato nella disciplina minacciata seriamente da sottil morbo”.

Celeste Enrico Sardi II (Wikipedia)

Non ci soffermiamo sulle polemiche e l’aspra davvero battaglia che nelle settimane successive infiammò il mondo sportivo e non solo (il 12 giugno, sempre la Gazzetta dello Sport incalzava: “L’attesa però non deve essere stornata da querimonie: può essere rotta tutt’al più da altri fatti e forse da altre deliberazioni vagamente accennate e delle quali si attende con qualche ansietà il risultato. Se si sta camminando sulla via della epurazione, ch’è via di redenzione, si prosegua sulla retta via senza tema di nessuno, poiché ai coraggiosi e agli onesti non è mai mancato il plauso della folla sportiva che sente intimamente la bellezza di una lotta giusta e riparatrice. E nessuno svaghi con parole inutili, contribuisca se può ed accusi anche, quando egli sappia e possa colpire a pieno”) e trovò il proprio epilogo nell’Assise federale di Vercelli il 14 luglio in quello che è passato alla storia del calcio italiano come il “Processo di Vercelli”.

Più interessante appare evidenziare come il tema del “professionismo” avesse ormai attirato un’attenzione più generale e non focalizzata solo sull’estirpazione della “mala pianta”. Ecco così la solita Gazzetta dello Sport del 1° agosto proporre in prima pagina un articolo a firma Melanio Laugeri che poneva seriamente all’attenzione dei lettori la problematica del professionismo seppur affrontata da un’ottica particolare ma alquanto diffusa, vale a dire della contrapposizione assai sentita tra calciatori indigeni e calciatori stranieri.

Aristodemo Emilio Santamaria (Wikipedia)

In detto contesto, meritano di essere riportate alcune considerazioni storiche svolte da Massimo Prati nel suo interessante lavoro sul contributo dei calciatori svizzeri nel cosiddetto periodo “pionieristico” del calcio italiano: “Gli svizzeri, pionieri del football italiano 1887-1915”.

Scrive Prati: “Dopo aver vissuto una prima fase di patriottismo sfociato nel 1861 nell’unificazione del paese, l’Italia vide l’emergere di una seconda fase di nazionalismo all’inizio del XX secolo (…)” che si manifestò in particolare in una ripresa di quella politica coloniale attuata a partire dall’ultimo ventennio del secolo precedente e momentaneamente accantonata a seguito di una serie di insuccessi culminati nella sconfitta di Adua. “Il movimento nazionalista e la politica coloniale ad esso strettamente collegata ripresero vigore: nel 1905 furono fondati l’Istituto Coloniale Italiano ed il periodico che questa istituzione pubblicava, la Rivista Coloniale, e nel 1910 fu fondata l’Associazione Nazionalista Italiana”. Questa ripresa dello spirito nazionalista ebbe ripercussioni anche sul mondo del calcio che, a partire dal 1907, vedrà una sempre maggior pressione esercitata in particolare dalle società di ginnastica dotate di una sezione calcistica che si batteranno per l’esclusione dei calciatori stranieri dal campionato italiano. “Anche le questioni estetiche e linguistiche – evidenzia Prati – diventeranno terreno di lotta ideologica e nel 1909 la Federazione Italiana di Football cambierà la propria denominazione sociale in Federazione Italiana Gioco Calcio”.

Squadra simbolo di questa “battaglia” fu la compagine piemontese della Pro Vercelli, formata esclusivamente da giocatori italiani che, tra l’altro, costituirono in gran parte l’ossatura della stessa Nazionale nei suoi esordi. Le squadre tradizionalmente caratterizzate dalla presenza di calciatori stranieri al proprio interno, si opposero fortemente a questi tentativi di esclusione e decisero di non partecipare al campionato italiano del 1908”. L’anno seguente, malgrado la permanenza di strascichi e ripercussioni, si arriverà ad un accordo e si tornerà ad un campionato con la presenza di tutte le squadre. Resta il fatto che la politica e la polemica discriminatoria finì col condizionare in qualche modo l’atteggiamento delle squadre. Il Milan, ad esempio, attuerà una graduale riduzione della presenza di stranieri al proprio interno e comportamento non dissimile, sia pure in misura ridotta e più diluito nel tempo, adotterà anche il Genoa rinunciando ad un elemento di spicco come il centravanti Grant.

Titolando “In difesa degli stranieri”, Laugeri argomentava come non vi fosse giornale in cui non si leggessero trafiletti che richiamavano alla necessità di avere giocatori italiani nelle squadre; non vi fosse città o paese in cui si praticasse il calcio in cui non si levassero voci contro il danno arrecato dal fatto che si potessero portare stranieri all’interno delle cosiddette “squadre pure”. Sottolineando come l’antipatico gesto di alcune società, in particolare il Genoa che, forti dei propri mezzi e disponibilità, aspirassero a conquistare il campionato italiano chiamando a disputarlo tutta una raccolta di giocatori stranieri, avesse determinato un senso di ribellione da parte di coloro  che vivevano solo delle proprie risorse e delle proprie energie, sosteneva però vi fosse stato un travisamento dell’oggetto della campagna che, anziché dirigere la crociata contro chi provocava l’arrivo dei giocatori stranieri, l’aveva indirizzata anche a tutti gli stranieri che praticavano il calcio in Italia.

Si era cioè diffusa l’idea tra gli stessi praticanti ed il pubblico che “lotta contro lo straniero” fosse sinonimo di “lotta contro il professionismo”. Per questa ragione la battaglia nazionalista, in un momento in cui le spinte xenofobe trovavano largo seguito in qualunque settore, aveva trovato un maggior numero di sostenitori di quanto si sarebbe creduto. La presenza di qualche straniero in una squadra, induceva a pensare al professionismo e faceva dubitare quindi dell’onestà di quel club. Citando, quale esempio della poca coerenza dell’assunto straniero=professionismo da molti sostenuto, la circostanza che il Genoa, per poter usufruire delle prestazioni di Fresia, Sardi e Santamaria aveva dovuto rinunciare a degli stranieri (per impiegare Santamaria, il Genoa rinunciò, come già ricordato, ad un giocatore del valore di Grant), il giornalista chiedeva polemicamente se questo significava forse “purificarsi” dal professionismo.

Agli inizi del football in Italia, il movimento sorto nei piccoli centri di provincia dovuto alla presenza di forestieri che ivi si trovavano per occupazione o impieghi era stato indubbiamente minore, sotto questo profilo, rispetto alle grandi città, che erano quindi risultate favorite. In tal modo, nelle piccole città aveva avuto il sopravvento la partecipazione di giocatori indigeni e da questo in buona parte originava l’avversione di giocatori e tifosi di squadre espressione dei piccoli centri di provincia nei riguardi di quelle delle grandi città.

I giocatori sin lì puniti per aver percepito denaro da questo o quel club erano cinque: Swift, Comte, Fresia, Sardi e Santamaria, cioè tre italiani e due stranieri. Se poi si considerava il recentissimo caso Carcano, ecco che il numero risultava doppio. Se si vogliono escludere gli esteri perché peccano di professionismo – sosteneva Laugeri – allora a maggior ragione si sarebbero dovuti escludere gli italiani. Lasciando peraltro sottintendere conseguenze poco felici. E si chiedeva se fosse lecito ed onesto impedire a chi veniva spontaneamente in Italia, magari studenti, di partecipare alla competizione. Le squadre italiane avrebbero dovuto ricordare che esse dovevano la loro forma attuale allo spirito che le aveva spinte per l’ambizione ed il desiderio di eguagliare i campioni stranieri che avevano divulgato il calcio da noi ed a cui erano debitori del proprio perfezionamento.

In via incidentale e con attinenza alle problematiche e considerazioni proposte da Laugeri e molto parzialmente invece al processo intentato al Genoa ed ai giocatori per l’accusa di professionismo, nell’assemblea di Vercelli venne discussa anche “la grave e delicata questione dell’ammissione dei giuocatori esteri alle gare di campionato. I pareri furono discordi e la lunga discussione non potè approdare ad una precisa affermazione di maggioranza poiché mentre in massima pareva preponderante il convincimento d’impedire agli stranieri di partecipare al campionato se non residenti da almeno un anno in Italia, non fu possibile intendersi circa il numero di stranieri da ammettersi in ogni singola squadra”.

Il Genoa vincitore del 7° titolo

A proposito di professionismo, una teoria decisamente curiosa e “del tutto personale” – come veniva infatti precisato – era stata proposta da Umberto Meazza, presidente dell’AIA, in uno dei vari articoli sull’argomento in attesa dello svolgimento dell’Assemblea, firmato Ermete Della Guardia.

Meazza era convinto che anziché limitarsi a reprimere il professionismo, fosse meglio prevenirlo e riteneva di aver individuato un mezzo efficace in tal senso: limitare il prezzo del biglietto sui vari campi di calcio, essendo fuor di dubbio che il professionismo potesse essere attuato solo da quelle Società che potevano disporre di ampi cespiti di entrata.

“Limitiamo – sosteneva – il prezzo d’ingresso di quei clubs che non si peritano di far sborsare 5 lire per le tribune e 2 lire per i posti popolari e così otterremo un duplice scopo: di evitare degli avanzi di cassa che possono essere impiegati per spese non del tutto necessarie, e di contribuire vieppiù alla popolarizzazione del giuoco del calcio”.

Il giornale riconosceva che il concetto informatore di Umberto Meazza non appariva affatto errato, anche perché tendeva ad una perequazione, almeno approssimativa, dell’accesso ai vari campi.

“E’ infatti strano – veniva rimarcato – che il posto popolare abbia uno squilibrio sensibile di svalutazione a seconda che si tratti di Vercelli o di Genova, di Casale o di Milano, e che si concreti nella cifra alquanto saltuaria di 40 o 50 centesimi o addirittura di 1 lira e 50 o di 2 lire! Ad incassi limitati, dovranno corrispondere forzosamente spese limitate; ed è appunto su questo concetto che si fonda l’intima convinzione di Meazza: che il prezzo del biglietto d’ingresso influisca direttamente sulla dibattuta questione del professionismo(…). D’altra parte non è chi non riconosca l’opportunità che le finanze dei vari clubs abbiano a conciliarsi con quelle del pubblico che si reca ad un match di foot-ball convinto di assistere non già ad uno spettacolo ma ad una delle più belle e salutari discipline sportive”

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