La Penna degli Altri

La lezione ancora attuale di “Fuffo” Bernardini modulo variabile per sorprendere gli avversari

IL SECOLO XIX (Alessandro Ponte) – “Ora possono dirmi e farmi di tutto, ma la Nazionale l’ho avuta. Ho lavorato con entusiasmo, era lo scopo della mia vita, ho lanciato tanti giovani in gamba che mi vogliono bene». Bogliasco, 1977. Fulvio “Fuffo” Bernardini è il ct della Nazionale e lo sarà ancora per poco. Ha scoperto che i vertici della Federazione hanno già deciso di lanciare il suo allievo, Enzo Bearzot. Senza ringraziamenti. Bernardini, che ha già allenato la Sampdoria per 6 anni, uomo colto, laureato (uno dei primissimi nel mondo del pallone), capace di dare importanza massima «alla lealtà dei rapporti», si lancia in questo sfogo con gli occhi lucidi, tenendo stretta la mano della sua Ines. Immagina, contando i suoi 72 anni, di essere al tramonto della carriera. Quello che non sa ancora, è che la sua vita intera è avviata al crepuscolo. Trentacinque anni fa, il 13 gennaio del 1984, il “Dottore” se ne andava per sempre, nella sua casa di Roma. Fu la Sla a ucciderlo, ma questo lo si scoprirà solo vent’anni più tardi. Il silenzio che inghiottì il calcio italiano, con lui perennemente ingrato, dopo la sua scomparsa fece impressione. Perché “Fuffo” Bernardini era il calcio. Aveva esordito in Serie A giovanissimo, a 14 anni. Portiere della Lazio, squadra della sua città. Era il 1919, non c’era ancora la Roma della quale, comunque, divenne simbolo qualche anno più tardi. “Gatto magico” tra i pali, un violento scontro di gioco spinse la sua famiglia a chiedergli di cambiare ruolo. Ma Bernardini era il calcio, nessun problema: passò dai pali a fare il centravanti nell’Inter, poi ancora il mediano metodista. Continuò le sue magie a Roma, sponda giallorossa, della quale divenne il simbolo. Non c’era angolo, al Testaccio, dove non si sentisse parlare di lui. In Nazionale vinse la medaglia di bronzo all’Olimpiade di Amsterdam nel 1928 ma non fu convocato da Pozzo per il Mondiale del 1934. Fu uno dei primi veleni che gli intaccarono l’anima. Finita la guerra saluta il campo e diventa allenatore. Un genio del pallone, capace di ristudiare il “Metodo”, di togliere il libero salvo farlo comparire a partita in corso, grazie alla sovrapposizione tra i suoi calciatori. Grazie alle sue intuizioni vinse due scudetti lontano dalle metropoli: a Bologna e a Firenze. Laureato in Economia e commercio, giornalista professionista, arrivò a Genova nel 1965 per guidare la Samp in coppia con Baldini. Alla prima andò malissimo, i blucerchiati retrocedettero. La società decise allora di allontanare il solo Baldini. La Samp tornò in A l’anno seguente, e vi rimase per 5 anni, finché il “Dottore” riuscì a realizzare il suo sogno: allenare la Nazionale. Ingrato anche il compito, in quegli anni. A lui chiesero di mandare in pensione Mazzola e di ripartire dai giovani. Scoprì Antognoni e Altobelli, forgiò Bearzot. Quei ragazzi finiranno col vincere il Mondiale ’82, lui invece tornò alla Sampdoria come direttore generale fino al 1979. Di lì a poco, quella malattia così terribile e, al tempo, irriconoscibile, cominciò ad aggredire il suo corpo, fino a spegnerlo per sempre.

Articolo pubblicato sul quotidiano IL SECOLO XIX del 13 gennaio 2019

Redazione

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