Raffaele Ciccarelli, per le penne della S.I.S.S., racconta la figura di Obdulio Varela.
“Capitano, o mio Capitano!”. Non si può iniziare un articolo incentrato su un capitano nel calcio senza citare l’incipit della famosa poesia di Walt Whitman scritta in occasione della morte del presidente Abraham Lincoln.
Un ruolo particolare quello del capitano di una squadra, che ha la responsabilità in campo dei suoi giocatori, soprattutto ne è da guida morale.
Oggi, in molte squadre di calcio, la fascia di capitano è fatta girare, si è inventato il “capitano a rotazione”, per dare responsabilità a tutti, perché se il calcio moderno prevede i ruoli fluidi, figuriamoci in questo che è solo di rappresentanza.
Una teoria, che però non ci sentiamo di condividere.
Tralasciando il senso di responsabilità che tutti dovrebbero avere non tanto, o non solo, per quello che si guadagna, ma proprio per rispetto verso il calcio, quello del capitano è un ruolo che alla fine identifica la società stessa, e non c’è bisogno di rotazioni per riconoscerli.
Spesso, infatti, si tende a individuarli nei giocatori tecnicamente più forti, ma non è sempre così: ci sono alcuni giocatori, nel complesso meccanismo di un sistema squadra, che sembrano marginali al funzionamento tecnico della stessa, ma che sono fondamentali per temperamento e abnegazione.
Sono quei giocatori che vestono i panni del leader in campo, che sopperiscono ai limiti tecnici con un carisma capace, a volte, di trascinare i compagni nelle imprese più folli e improbabili.
La nostra storia ci porta in Uruguay, un grumo di terra schiacciato tra Argentina, Brasile e Oceano Atlantico, abitato da poco più di tre milioni di persone, eppure capace di essere in pratica la nazione più prolifica di talento calcistico che la Storia può annoverare, figlia anche della forte immigrazione, soprattutto di italiani e spagnoli, il periodo è quello di inizio 1900, in Europa infuria ancora la guerra quando a Montevideo, nel 1917, nasce Obdulio Varela.
Non era da molto che la nazione era uscita da due guerre civili, si era raggiunta una certa stabilità, ma le condizioni economiche non erano floride, la povertà era pressante e bisognava industriarsi per raggranellare il minimo per vivere.
Fu in queste condizioni che Obdulio a otto anni aiutava già la madre lavandaia, abbandonata dal marito, vendendo i giornali e facendo il lustrascarpe, un senso di povertà che non avrebbe mai abbandonato Varela, nemmeno quando divenne un campione affermato, quasi che quella fosse diventata una sua ineludibile condizione di vita.
La sua vocazione, però, era il calcio, giovanissimo entrò nel Deportivo Juventud, facendo la trafila fino a debuttare, nel 1936, in prima squadra.
Qui restò fino al 1938, per passare poi ai Montevideo Warriors e infine, nel 1943, al Peñarol di Montevideo.
Questa era, ed è, la squadra più titolata della nazione, nata con il nome di Central Uruguay Railway Cricket Club (Curcc), che poi trasformò in quello attuale, che è la versione tradotta dell’italiano Pinerolo, da cui prendeva il nome il quartiere.
Con i Carboneros Varela trascorse tutto il resto della sua carriera di centromediano, vincendo sei edizioni del campionato uruguayano.
Centromediano era il suo ruolo, da non confondere con quello di centro metodista, o volante central, alla sudamericana: stessa posizione del campo da presidiare, ma chi interpretava il secondo ruolo doveva avere doti tecniche e fosforo calcistico, che non erano propriamente le peculiarità di Obdulio.
Vissuta un’infanzia povera e difficile, per strada sin da piccolo, egli aveva sviluppato un carattere e una personalità fortissimi, e queste erano le sue doti principali, unite a una grande forza fisica.
Caratteristiche che gli procurarono il soprannome, El Negro Jefe, il Capo Nero, che ben sintetizza quanto scritto sopra.
Naturalmente, queste sue grandi capacità agonistiche gli valsero la convocazione nella nazionale Celeste, in cui debuttò già nel 1939, e di cui divenne capitano fin dal 1941, dimostrando da subito di possedere tutte quelle caratteristiche di cui abbiamo scritto prima: personalità, tenacia, abnegazione.
È con questi gradi, e grazie anche alla grande esperienza maturata, che già lo avevano portato a far parte della nazionale che aveva vinto il Sudamericano del 1942, che il CT Juan Lopez Fontana lo convoca per i mondiali del 1950.
Questa competizione ritornava dopo dodici anni dalla disputa dell’ultima finale, in Francia nel 1938, quando l’Italia conquistò il suo secondo titolo mondiale superando l’Ungheria.
Seguirono i lunghi, tristi, anni della guerra, morti e macerie dappertutto, uno scenario che, in fase di ricostruzione, non permetteva di giocare nel Vecchio Continente, anche per questi motivi fu scelto il Brasile, perché dall’altra parte del mondo erano giunti solo echi della guerra.
Con tante nazioni in fase di ricostruzione, solo tredici furono le partecipanti, la formula fu anomala, non prevedendo una gara di finale, ma un girone finale, la cui vincente si sarebbe aggiudicato il titolo di campione, e naturalmente i padroni di casa erano i favoriti assoluti.
L’Uruguay si qualificò facilmente al girone finale, dovette affrontare solo la Bolivia che fu sconfitta con un sonoro otto a zero.
Per il Brasile le avversarie furono Jugoslavia, Messico e Svizzera, con vittorie rotonde su messicani (4-0) e slavi (2-0), e pareggio con gli elvetici (2-2).
Un cammino spettacolare che accrebbe la fiducia della gente e l’autostima della squadra, e il girone finale sembrò confermare le previsioni che vedevano i cariocas vincenti, con gli entusiasmanti successi su Svezia (7-1) e Spagna (6-1).
Di contro, l’Uruguay stentò, pareggiando con gli iberici (2-2) e superando di misura i nordici (3-2).
L’ultima giornata sarebbe stata decisiva, pur non prevedendo una finale, quella partita tra Brasile e Uruguay in pratica lo sarebbe stato.
Vi arrivava il miglior Brasile di quegli anni e una squadra, quella uruguayana, apparsa modesta, dimessa, che non autorizzava grandi aspettative, i timori di una goleada erano tanti, così che i dirigenti chiesero ai loro giocatori di perdere con onore, una possibilità che fu scartata a priori, con rabbia, proprio da Obdulio Varela.
Non poteva essere d’accordo, El Negro Jefe, ma l’inizio della partita e tutto il primo tempo fu da far tremare i polsi, per i giocatori della Celeste c’era solo da difendersi dagli attacchi veementi dei vari Friaça, Ademir, Zizinho, Jair, che avevano l’unico obiettivo di vincere la partita, non per la vittoria della coppa, perché per quello un pareggio sarebbe stato sufficiente, ma perché si sentivano più forti e l’avversario, rivale storico, troppo debole e da sconfiggere.
Un errore di valutazione fatale, anche perché gli stessi avversari, due mesi prima, li avevano già messi in grosse difficoltà in occasione della “Copa Rio Branco”.
Era, questa, una competizione tra le due nazioni istituita nel 1916, ma che vide la sua prima edizione nel 1931, e fu disputata l’ultima volta nel 1967.
Nell’edizione del 1950, che precedeva il mondiale, si impose il Brasile, ma solo alla terza gara (1-0), dopo che gli uruguagi avevano vinto la prima (4-3) e perso la seconda (3-2), in tre partite estremamente equilibrate che avrebbero dovuto allarmare i brasiliani, ma così non fu.
Nella ripresa i loro rosei sogni sembrarono materializzarsi con la rete di Friaça, l’entusiasmo irrefrenabile sul campo, sugli spalti, nell’intera nazione, ma a questo punto fece il suo capolavoro Obdulio Varela.
Il capitano, intuendo che doveva smorzare quell’entusiasmo, recuperò il pallone dalla porta di Roque Maspoli e con estrema lentezza, quasi stesse attraversando un deserto invece di un campo festante, incurante degli insulti che pubblico e avversari gli rovesciavano addosso, proprio perché volevano sfruttare al massimo quell’entusiasmo, si avviò verso il centrocampo.
Non solo, per perdere altro tempo Obdulio inscenò una protesta per un fuorigioco inesistente con l’arbitro inglese George Reader, e tutta quella perdita di tempo raggiunse il suo scopo: l’entusiasmo era scemato, i suoi compagni incoraggiati e stimolati alla reazione, e per il Brasile fu l’inizio della fine.
Quando il gioco riprese, nonostante il vantaggio, le certezze carioca erano diminuite, alla rete di Juan Alberto Schiaffino cedettero per evaporare totalmente pochi minuti dopo al gol di Alcides Ghiggia.
Il destino era compiuto, il Maracanazo servito, silenzio e disperazione, non fanfare, accompagnarono la rapida premiazione, che si ridusse alla sola consegna della coppa da parte di Jules Rimet a Varela, intorno pianti e disperazione brasiliana.
Alla fine gli eroi ricordati di quella partita furono Schiaffino e Ghiggia, i giustizieri di Moacir Barbosa e di quel Brasile che finì in lacrime.
Il vero eroe, però, quello che permise quella vittoria, che annichilì una squadra e un popolo con una sola mossa psicologica, fu lui, Obdulio Varela, El Negro Jefe, Capitano Coraggioso.
GLIEROIDELCALCIO.COM (Raffaele Ciccarelli)
allenatore di calcio professionista, si dedica agli studi sullo sport, il calcio in particolare, dividendo tale attività con quella di dirigente e allenatore. Giornalista pubblicista, socio Ussi e Aips, è membro della Società Italiana di Storia dello Sport (Siss), dell’European Committee for Sports History (Cesh), dell’Associazione dei Cronisti e Storici dello Sport (La-CRO.S.S.). Relatore a numerosi convegni, oltre a vari saggi, ha pubblicato: 80 voglia di vincere – Storia dei Mondiali di Calcio (2010); La Vita al 90° (2011), una raccolta di racconti calcistici; Più difficile di un Mondiale – Storia degli Europei di Calcio (2012); Il Destino in un Pallone (2014), una seconda raccolta di racconti calcistici; Lasciamoli giocare-Idee per un buon calcio giovanile (Edizioni del Sud, Napoli 2016). Per GliEroidelCalcio in convenzione S.I.S.S.
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