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Inter – Liverpool … Miracolo a Milano

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GLIEROIDELCALCIO.COM (Francesco Gallo) –

L’Europa del calcio, il torneo più atteso, il palcoscenico più ambito. Signore e signori, è appena ricominciata la Champions League. Due le italiane in gara, Juventus e Inter, rispettivamente impegnate con il Villareal e il Liverpool. Proprio dalla sfida tra nerazzurri e Reds cogliamo l’occasione per compiere un avvincente salto nel passato attraverso cui rivivere insieme la celebre doppia sfida infernale tra le due squadre nell’edizione della Coppa dei Campioni 1964-65. Due match che avrebbero aperto alla squadra milanese le porte della finale e quelle della sua indimenticabile leggenda.

Sapessi com’è strano darsi appuntamento a Milano

Dopo i difficili e drammatici anni della ricostruzione, la città di Milano si trasformò in breve tempo nella cosiddetta «locomotiva d’Italia» e prese per mano l’intero Paese trascinandolo nel difficile inseguimento delle grandi capitali europee. La metropoli meneghina, che in quel periodo prese a somigliare sempre più a una sorta di New York italiana, vantava il privilegio di accogliere attorno a sé artisti, editori e scrittori premi Nobel destinati negli anni a segnare un’epoca.

Fu quello un periodo intenso e vitale durante il quale sembrava davvero che tutti lavorassero sodo per comprare la lavatrice o la prima Seicento, simbolo del raggiunto benessere economico. Sotto la Madonnina si respirava un’atmosfera di grande fermento che, anno dopo anno, cominciò ad attorniare anche quelle migliaia di migranti che, come nel film Rocco e i suoi fratelli, in quel periodo lasciavano il Sud per andare a lavorare nelle fabbriche della Pirelli o dell’Alfa Romeo. Si trattava di un immenso movimento disperato, che custodiva però dentro di sé una speranza. Calabresi, lucani e pugliesi non inseguivano una vita migliore al Nord, ma una possibilità di poterla avere. Chiusi nelle nuove città dormitorio, lontani dalle proprie famiglie e dalla propria terra, ma con un piccolo senso di conquista possibile, queste massicce emigrazioni contribuirono in gran parte a creare anche il calcio moderno, figlio però di una vera, profonda e sincera divisione sociale.

Luci a San Siro

I tifosi interisti, che ancora rappresentavano i cosiddetti «bauscia» milanesi (la piccola classe dirigente della città) erano fieramente contrapposti a quelli milanisti che invece venivano chiamati «casciavit», cioè operai, coloro appunto che mettevano le viti, i quali, spesso, erano più che altro meridionali spaesati in cerca di integrazione e quindi di identificazione. Un’identificazione sportiva prima ancora che sociale.

I due più noti «cumenda» della città, quelli più svelti a intuire che a Milano il calcio stava diventando quasi una necessità popolare, furono Angelo Moratti, già uno dei più ricchi raffinatori di petrolio in Europa, e l’editore Andrea Rizzoli, formalmente decisi a contrastare l’egemonia torinese (industriale e calcistica) simboleggiata dalla Juventus di Gianni Agnelli. Così, alla crescente supremazia milanese diffusa in tanti campi dell’industria, si unì anche quella inedita del calcio. E nel biennio 1963-64 le vittorie in Coppa dei Campioni di Milan e Inter consacrano questo sorpasso, sancendo anche un profondo rinnovamento del calcio italiano.

La nascita della ‘Grande Inter’

L’incoronazione europea del Milan nel 1963 stimolò più di ogni altro avvenimento le ambizioni della storica rivale cittadina, l’Inter. Dopo lunghi anni di infruttuosi investimenti, il presidente Moratti era convinto di aver finalmente costruito una squadra quasi invincibile. L’edificazione di quella che presto avrebbe preso il nome di «Grande Inter» fu assai dura e laboriosa, e nel corso degli anni il magnate del petrolio aveva già cambiato una decina di allenatori e campioni in serie, prima di trovare finalmente il bandolo della matassa.

La sua caparbietà, il suo intuito e la sua fortuna, furono quelle di indovinare nel geniale direttore Italo Allodi e nell’allenatore Helenio Herrera i collaboratori che gli avrebbero procurato le future vittorie. Il mister, che presto tutti avrebbero cominciato a chiamare «Il Mago», rivoluzionò dalle fondamenta la squadra nerazzurra con metodi di allenamento inediti e autoritari. Impose diete ferree, durissimi ritiri e infinite corse attorno al campo. Con lui in panchina, ancor più che con Nereo Rocco sull’altra sponda milanese, il ruolo del tecnico cominciò a diventare quasi più importante dei giocatori, ed è qui che cominciò a imporsi il ruolo moderno del tecnico di calcio.

La sua strategia tattica fu quella di affidare a Picchi la gestione dei compagni, spostare Facchetti sulla fascia, consegnare a Suárez le chiavi del gioco e affidarne la finalizzazione al giovane attaccante Sandro Mazzola, la cui doppietta nella prima finale di Coppa dei Campioni contro il Real Madrid di Di Stéfano e Puskás segnò l’inizio del ciclo nerazzurro e degli indimenticabili giorni di gloria dell’Inter. Quella squadra era e resta il miglior riassunto del calcio all’italiana, avaro di spettacolo, ma prodigo di risultati.

Allarme in Europa: arrivano i Reds!

Dopo la vittoria della prima Coppa dei Campioni, l’Inter puntava a conquistarne una seconda. La fortuna era stata dalla parte dei nerazzurri fin da quando la Uefa aveva deciso di assegnare la finale a San Siro. La dea bendata favorì poi l’Inter anche nei Quarti di finale, quando la squadra di Herrera riuscì a superare il Glasgow Rangers soltanto dopo due partite piene di sofferenza e patimenti. E ora, in semifinale, erano attesi dal Liverpool, al debutto nella Coppa dei Campioni.

La città portuale che si affaccia sul Mare d’Irlanda, in quegli anni cominciò a trovarsi sulla bocca di tutti perché al numero 10 di Mathew Street, in un fumoso locale sotterraneo e con poca luce, noto con il nome di Cavern Club, sul suo palco si erano da poco forgiati i Beatles, che proprio nel 1965 impazzavano in tutto il mondo con il singolo Yellow Submarine. Gli scousers (i cittadini di Liverpool) erano fieri, però, anche di poter vantare nella bacheca del proprio club la prime coppe della loro storia (Supercoppa d’Inghilterra ed FA Cup), nonché il settimo campionato appena strappato agli acerrimi rivali del Leeds United, del tanto odiato Don Revie.

La squadra inglese in quel momento era allenata dal mitico Bill Shankly. Il tecnico scozzese (connazionale di Matt Busby e Alex Ferguson) in soli quindici anni aveva dotato il Liverpool di un gioco spettacolare, contribuendo così in maniera decisiva a risollevare le sorti anche del calcio inglese, in crisi nera da almeno dieci anni e ancora in lacrime per l’incidente aereo nel quale erano deceduti quasi tutti i giocatori del Manchester United, i cosiddetti «Busby babes».

Shankly era arrivato a Liverpool nel 1959 per ricostruire la squadra dalle basi, e fu infatti lui l’architetto della rivoluzione calcistica che in quegli anni avrebbe mostrato il miglior gioco visto in Inghilterra nel dopoguerra. La squadra si basava su una semplice filosofia tattica fondata sul “dai e vai”, la quale avrebbe plasmato almeno due generazioni di campioni in grado di portare in bacheca due campionati inglesi (1965-1966 e 1972-1973), due Coppe d’Inghilterra (1964-1965 e 1973-1974) e soprattutto una Coppa UEFA (1972-1973) che avrebbe definitivamente imposto il Liverpool come potenza europea di prim’ordine.

Anche per questo motivo, sulla costa del Merseyside Bill Shankly è ancora oggi considerato un’identità che travalica il semplice gioco del calcio. Nello stadio di Anfield, gli sono stati dedicati il cancello d’ingresso, lo Shankly Gate (tra i cui ceselli barocchi svetta la scritta «You’ll never walk alone») e anche un’enorme statua in cui è scolpito il suo volto severo e rassicurante, che tutt’ora sembra riecheggiare le sue parole più famose: «Alcuni pensano che il calcio sia una questione di vita o di morte. Non sono d’accordo. Posso assicurarvi che è molto, molto di più».

Non solo Liverpool. L’intero calcio inglese era in risalita, anche perché sulla panchina della nazionale era appena approdato Alf Ramsey, l’ex allenatore dell’Ipswich Town che aveva da poco stravinto il campionato tra l’incredulità di tutti, visto che la squadra l’anno prima lottava ancora nella serie B inglese. L’Inghilterra, che nel frattempo si stava preparando a ospitare l’imminente mondiale casalingo del 1966, aveva anche un altro uomo al comando, Harold Wilson, il neoeletto Primo ministro, che di lì a poco i londinesi avrebbero salutato insieme ai propri campioni sul tetto del mondo.

Tutto ciò accadeva mentre a Londra, sui marciapiedi di Carnaby Street, si vedevano per la prima volta le ragazze indossare la minigonna disegnata da Mary Quant. Erano del resto gli anni della «Swinging London», delle house party, dello scandalo Keeler e degli abiti optical in bianco e nero. Un periodo d’oro per la storia britannica, durante il quale si allungavano le collane e si accorciavano i vestiti.

Liverpool, che storicamente dai suoi docks della Mersey era stata abile nell’esportare cotone, assisteva inerme a questa evoluzione dei costumi, con non poche conseguenze disastrose sul mercato interno. Il prezzo dei prodotti tessili era di fatti precipitato, stimolando in tal modo la diversificazione del loro uso. I primi ad approfittarne furono proprio i tifosi del Liverpool, che sugli spalti dell’Anfield road, oltre a bere birra e consumare grandi quantitativi di cipolle, esibivano striscioni, sciarpe, parrucche e vestiti con i colori del club.  Un teatro nel teatro che aveva il suo punto nevralgico nella Kop, la curva popolare dove si ammassavano i supporter inglesi appartenenti alla working class. Portuali, manovali e garzoni che, almeno una volta a settimana, trovavano una valvola di sfogo collettiva sui gradoni di uno stadio, un luogo che gli consentiva di festeggiare liberamente e rumorosamente, tanto da essere conosciuti come hooley (che inglese sta a significare “far festa in maniera sregolata”), termine da cui in futuro sarebbe derivato il tristemente noto hooligans.

You’ll never walk alone

Il 4 maggio 1965, gara d’andata della semifinale, i tifosi interisti partiti in Inghilterra furono soggiogati dal tifo colorato e organizzato dei rivali inglesi. I fan del Liverpool cantavano e davano spettacolo a pochissimi metri dal campo da gioco, proprio perché, come tutti gli stadi britannici, anche l’Anfield Road non soffriva dell’oltraggio della pista di atletica e non c’erano protezioni a separare gli spettatori dai giocatori. Dalla Kop, una delle curve più all’avanguardia della storia del calcio, oltre a incitare i propri beniamini in campo, ci si divertiva a intonare le grandi canzoni nazionali per dedicarle ai calciatori preferiti. Per esempio She Loves You dei Beatles, era destinata al capitano Ron Yeats; You’re My World di Cilla Black, a Bill Shankly; When the Saints go Marching in a Ian St. John; e You’ll Never Walk Alone, nella versione rivisitata da Gerry and The Peacemakers, all’intera squadra.

Dopo la supremazia sugli spalti, il Liverpool riversò tutta la propria grinta agonistica in campo e annientò l’Inter con il perentorio risultato di 3-1. «The Saint», Callaghan e Hunt schiantarono l’apparentemente imperforabile difesa italiana, facendo calare sull’intero ambiente nerazzurro il presagio di una cocente eliminazione. Ma non era ancora finita, perché le due squadre si sarebbero riaffrontate otto giorni dopo a Milano per la gara di ritorno.

Quel “furto” di Peirò

Quando ormai tutto sembrava perduto, nel giro di due minuti a Milano si gridò a un nuovo miracolo, quattordici anni dopo quello adattato per il cinema da Vittorio De Sica. Tra l’ottavo e il nono minuto del primo tempo, infatti, l’Inter cominciò una grandiosa rimonta sui rivali inglesi.

Ci pensò dapprima Mariolino Corso che, con il suo cosiddetto «piede sinistro di Dio», eseguì una delle sue classiche punizioni “a foglia morta” piazzando un magistrale colpo a effetto nell’angolo basso della porta difesa dal portiere inglese Tommy Lawrence. In quel momento nessuno lo poteva immaginare, ma era l’inizio della rimonta e di una delle notti europee più esaltanti nella storia del club milanese. San Siro ruggì d’entusiasmo e gli ottantamila spettatori incitarono la riscossa dei nerazzurri.

Passò un solo minuto e Mazzola lanciò una ghiottissima palla per l’attaccante spagnolo Joaquín Peiró, il quale era rapido e tecnico, ma soprattutto in grado di esibirsi in incredibili progressioni di trenta metri. La palla, tuttavia, finì tranquillamente nelle mani del portiere Lawrence, il quale, dopo essersi lasciato alle spalle Peiró, cominciò a far rimbalzare il pallone in area per prepararsi alla rimessa lunga. Durante uno di quei rimbalzi, improvvisamente, dalle sue spalle sbucò l’attaccante madrileno che gli rubò il pallone e lo infilò con tutta calma in porta: 2-0.

La rabbia dei Reds per quella beffa si scatenò nei confronti dell’arbitro spagnolo José María Ortiz de Mendíbil (lo stesso che tre anni dopo avrebbe diretto il doppio incontro tra Italia e Jugoslavia per la finale degli Europei del 1968). Il direttore di gara fu accerchiato, spinto e insultato. Ma con fermezza e decisione continuò la sua disciplinata progressione verso il centro del campo e indicò di riprendere il gioco. Il gol di Peiró era più che valido.

Il trionfo finale fu poi suggellato da Giacinto Facchetti, autore del terzo gol, che con una perentoria cavalcata delle sue si presentò davanti a Lawrence piazzando un potente destro a incrociare. Il miracolo era completato e quella vittoria spianò la strada dell’Inter verso la conquista della seconda Coppa dei Campioni consecutiva. Una Coppa che, molto probabilmente, senza il guizzo di Peiró non avrebbe arricchito la bacheca dell’Inter e di conseguenza l’intera leggenda nerazzurra. Sì, perché, ancora oggi, quel gol è considerato il punto di svolta nella storia dell’Inter che pochi giorni dopo si sarebbe meritata l’appellativo di «Grande», a conclusione di un indimenticabile biennio d’oro.

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