Le Interviste degli Eroi

ESCLUSIVO – Intervista a Michele Moro… Olbia, Cagliari e Gigi Riva

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GLIEROIDELCALCIO.COM (Riccardo Balloi) – “Gli Eroi del Calcio” fa tappa in Sardegna Settentrionale, nel capoluogo della Gallura, Olbia. Abbiamo incontrato Michele Moro, classe 1949, centrocampista che per quindici anni ha calcato i campi di serie B e C. Uomo di sport della generazione dei romantici, quando il calcio era aggregazione, quando il calcio era gioventù per tutte le età. Oggi in pensione, dopo avere appeso le scarpette al chiodo è stato allenatore e scopritore di talenti nella sua amata isola, nonché collaboratore nella filiera d’allevamento di cozze, in cui la sua azienda di famiglia operava.

Michele, partiamo dall’inizio. Com’è arrivato nel calcio professionistico?

Nel 1964, a quindici anni, fui portato al Cagliari, nell’epoca in cui i rossoblù cominciavano la loro grande espansione ed evoluzione. La città, che nel dopoguerra si era risollevata dalla fame, negli anni sessanta si evolveva a grande punto d’approdo per i colossi commerciali del Continente, e con lei la sua squadra. Io fui scoperto da Tognò, allora allenatore in seconda. Il calciomercato come lo conosciamo ai giorni nostri, a quei tempi forse non era nemmeno pensabile. A parte alcune eccezioni, i presidenti erano appassionati, grandi lavoratori, e anche dei buoni diplomatici. La compravendita dei calciatori, spesso, era la testa o la coda di accordi, favori e scambi tra le aziende. Molti dirigenti delle squadre erano al contempo funzionari di ditta, rivali sportivi ma colleghi di lavoro. C’era una certa lealtà e, se vogliamo, collaborazione. La crescita del Cagliari andava, in sostanza, di pari passo con l’apertura di filiali regionali, uffici, sedi staccate di grandi aziende.

Le giovanili del Cagliari. Cosa era il Cagliari, solo sei anni prima dello storico scudetto?

Il Cagliari era un’isola felice, che crebbe per merito di dirigenti abili ed estremamente astuti. La squadra fu costruita con un sistema di scambi e con un’intelaiatura di giovani che venivano mandati a fare la gavetta in prestito nelle serie minori. Io giocavo nella De Martino, quella che allora era la Seconda Squadra, ed oltre al calciatore, avevo un’altra mansione.

Qualcosa mi dice che sta per deliziarci con la prima curiosità…

Noi giovani, al giovedì, avevamo il compito di “sformare”. Le scarpe dei calciatori della prima squadra, in quell’epoca in cui le calzature erano in cuoio e pelle, alla prima calzata rischiavano di essere piuttosto fastidiose e scomode, quindi noi avevamo il compito di indossarle per dare la forma ed ammorbidirle. Io portavo il numero 41/42. Sformavo le scarpe di Cera e Greatti.

A diciott’anni esordì in prima squadra, contro l’Atalanta nella stagione 1967/68.

Ero la riserva naturale di uno dei centrocampisti più forti in circolazione, Pierluigi Cera. In quell’occasione era infortunato, e fui chiamato all’esordio. Quella fu la mia unica apparizione nella Massima Serie. Da quanto ero emozionato, già subito dopo il triplice fischio ricordavo ben poco del match. Figuriamoci oggi.

Giocai anche in Coppa delle Fiere, contro l’Ajduk Spalato. Quando ero più grande partecipai alle tournée precampionato in America. Fu lì che imparai sulla mia pelle, anzi sui miei stinchi e sui denti, che il calcio era un gioco maschio, dove vinceva chi aveva i piedi più buoni e i gomiti più duri.

Poi cosa successe?

Successe che poco tempo dopo, in una partita con la De Martino, mi ruppi il perone.

Cosa ci vuole dire del capoluogo sardo di quell’epoca?

Cagliari l’ho conosciuta bene. Ci ho vissuto, ma soprattutto ci ho giocato. Ancora oggi le società dilettantistiche giocano nei campi che ho calcato anch’io, ed è stato così che l’ho potuta vivere: al campo. Naturalmente, noi che eravamo una selezione, andavamo a vincere ovunque. Johannes, Ferrini, sono tutte polisportive che ancora oggi sfornano dei talenti che poi vengono prelevati dai professionisti. Ricordo anche la Pacini, che ecco, era l’unica squadra che ci dava del filo da torcere. Ricordo il campo dell’Uragano di Pirri, nell’attuale via Vesalio. Era pieno di canali e buche. Nelle giornate piovose, nei pressi del centrocampo c’era un vero e proprio corso d’acqua. Cagliari era popolare.

Ha giocato per anni tra serie B e serie C, fu ceduto dal Cagliari?

No, il Cagliari dava in prestito i suoi giocatori per una stagione, alla fine della quale si rientrava.

Catanzaro, Olbia, Pescara, Crotone, Lucchese eccetera. Quante ne ha vissute?

Tantissime, ogni calciatore potrebbe scrivere un libro. Quando giocavo a Crotone nella stagione 1975/76, nel girone d’andata affrontammo il Lecce. Un mio compagno fu sostituito per un infortunio causato da un intervento piuttosto violento di un giallorosso. Io promisi all’autore del fallo che quella partita non l’avrebbe finita, ma non la finii nemmeno io. Il guardalinee mi segnalò al direttore di gara e fui espulso e squalificato per tre giornate. Al ritorno, ancora agguerriti per quella vicenda, ne successe un’altra. Noi non avevamo più nulla da chiedere al nostro campionato, il Lecce invece era in lotta per la promozione. Giocammo col coltello tra i denti, li costringemmo al pareggio e la loro promozione sfumò.

La prego, un altro soltanto.

Giocavo a Catanzaro, stagione 1968/69. In tutta la Calabria era viva la diatriba per l’assegnazione del capoluogo di regione, che avrebbe trovato il culmine qualche tempo dopo, in quelli che vengono chiamati i Moti di Reggio. Il campanilismo si era collegato alla politica. E noi, in quello scenario, avremmo affrontato la Reggina. Si giocò in campo neutro ad Acireale, pertanto per raggiungere la sede della gara dovemmo attraversare Reggio Calabria. Lo stadio era tutto amaranto, perdemmo con un gol di mano in Zona Cesarini. Protestammo, ma l’arbitro ci disse “ora battete il calcio d’inizio e io fischio la fine, poi ci vediamo negli spogliatoi”. Ci ritrovammo a riunione, da soli col direttore di gara, che ci disse: “questa partita dovevate perderla, se no da qui non sareste usciti vivi!”.

Gli arbitri e il gioco maschio, senza telecamere e VAR, com’era?

Semplice, quando il gioco era fermo evitavamo proteste troppo veementi, ma quando la palla era in gioco, gli parlavamo mentre correvamo. Immaginerete le discussioni da caffè letterario…

La sua partita memorabile?

A parte l’esordio in serie A, del quale, ripeto, ricordo poco, vado fiero di tante gare. Una in particolare è quando nella stagione 1972/73, con la Lucchese giocammo contro la Spal. Società estremamente blasonata e influente nei piani dirigenziali del calcio, col leggendario presidente Massa. Facemmo una grande gara e vincemmo. Ecco, fare punti a Ferrara, per quei tempi, era impresa da annali.

Un allenatore che ricorda con particolare simpatia?

Castelletti, ex terzino della Fiorentina. Ma credo che in molti ne abbiano un felice ricordo come me: persona stimata da tutti, un punto di riferimento a Coverciano, nella Toscana che negli anni ’70 come oggi, era Il Calcio.

Il nostro “portale” è letto da tanti sportivi, ma anche tanti collezionisti, scarpe, maglie e palloni…

Ho un ricordo particolare sulle scarpe. Quando col Cagliari andavamo in ritiro ad Asiago, dalle vicine manifatture venivano gli imprenditori, ci mettevamo a sedere e ci prendevano le misure dei piedi. Pochi giorni dopo ci facevano avere le scarpe. Tepa Sport, Pantofola d’oro, Ferrari, la loro più grande pubblicità era vedere i loro prodotti sui piedi dei giocatori del Grande Cagliari. Ah, e quando pioveva tanto, il nostro magazziniere – che era anche sarto e calzolaio- inchiodava ai tacchetti delle protesi per evitare che scivolassimo. Le Adidas non le conoscevamo nemmeno.

Ci perdoni, ma non possiamo fare a meno di chiederle di Gigi Riva, con cui lei ha giocato.

Ma, cosa dire di un personaggio così conosciuto. Quando ero in ritiro con la prima squadra, ero il più piccolo, e spesso ero affidato a lui. Mi portava al campo, a tavola sedevamo vicini. C’era un giornalista, il cui unico compito era scrivere un pezzo al giorno su Rombo di Tuono. Ad un certo punto Gigi gli disse: “senti, è inutile che mi intervisti tutti i giorni. Tu sei qui e mi vedi, scrivi quello che ti pare, ma sappi che se scrivi qualcosa che non è vero, salti la porta e non ti avvicinerai mai più”.
Poi, l’aneddoto che oggi è sulla bocca di tutti, sul rifiuto di Riva alla Juventus. E’ tutto vero. Lui rifiutò perché Cagliari era la sua casa, la gente lo amava e lui non avrebbe mai voluto deluderli. E poi i soldi, a quei tempi, nulla erano a confronto dei formaggi, dei prosciutti, del pesce fresco, delle tavolate in famiglia, degli omaggi popolari che riceveva. La ricchezza, e non è demagogia, non era determinata solo dai soldi. Nenè, ad esempio, era pagato in dollari, ed aveva un ingaggio più alto di quello di Riva. Ricordo che quando uscivamo, si avvicinava la gente, e mi permetta un registro colloquiale: c’era chi lo voleva a compare, chi a padrino, chi a testimone di nozze, chi lo invitava a battesimi o matrimoni. Pensate che quando il Cagliari vinceva a Milano o a Torino, tornavamo sull’isola e la città era in festa, vedevamo i volti della brava gente, di giovani e adulti, di ladri e delinquenti, mescolarsi in un’unica entità, che credo oggi sia difficile descrivere.
Ricordo un’affermazione di Riva al giornalista Murgia: “alla Juve non ci vado anche perché non hanno squadra, non cambia nulla se comprano me”. Era un’epoca sportiva in cui il Cagliari poteva farsi beffe della Vecchia Signora.

Altro?

Ti accontento subito. Nel 1967 andammo in ritiro a Bardonecchia, in vista di due trasferte, a Milano e Torino. Passavamo il tempo ad allenarci e a concentrarci, immaginerai. E invece no. C’era la neve, e noi giocammo a “palloccate” per tutto il tempo. Poi andavamo allo stadio e vincevamo. Eravamo Il Cagliari. 

Finì la sua carriera all’Olbia. Cosa successe, poi?

Cominciai a fare l’allenatore e giocatore. Era il 1980. Accettai di collaborare con L’Olbia, in una delicata fase di cambio di presidenza. Arrivai assieme ad altri giocatori esperti. Posi come unica condizione la ricerca e valorizzazione dei giovani sardi. Iniziavo a captare un’aria nuova e quello era il mio tentativo per difendere i valori sportivi in cui avevo sempre creduto. Questo patto fu rispettato per due anni scarsi. Nel mentre io, come d’altronde anche i miei colleghi, avevo un secondo lavoro nell’azienda di famiglia. Iniziarono i primi prestiti onerosi dalle società più grosse. La meritocrazia, la valorizzazione dei vivai locali lasciò il posto al Dio Denaro, e l’Olbia s’imbottì di ragazzini -alcuni meritevoli ed altri meno- provenienti dalle società delle categorie superiori, e riceveva premi in denaro per farli giocare. Fu a quel punto che decisi di allontanarmi.

L’Olbia oggi, società satellite del Cagliari. Cosa ne pensa?

Ringrazio Giulini per avere salvato l’Olbia e avergli dato la possibilità di tornare in terza serie. Ma non condivido le scelte societarie. Personaggi che dell’Olbia calcistica hanno grandi competenze, che per una vita vi si sono dedicate, sono stati lasciati fuori dall’organigramma. Torniamo sempre al solito discorso: non si valorizzano i vivai del territorio. Il calcio è delle SPA. E infatti il pubblico non è più numeroso come una volta. Tifo ancora l’Olbia ma non vado “al campo”.

La sua Olbia oggi…

Olbia è una città che vive di sudditanza. Il fatto che oggi sia definita il capoluogo della Costa Smeralda è tutto dire. È una città al servizio delle élite. Per me è e dovrebbe essere molto di più, e restituita agli olbiesi.

I nostri più sentiti omaggi a Michele Moro, alla sua Olbia, ed al suo Olbia.

E noi restiamo qui, cresciamo ed invecchiamo, sempre alla ricerca del ricordo sportivo di qualcun altro, che ascolteremo col petto gonfio, come fossimo stati noi a viverlo. Forse stolti, ma sicuri che ciò che è stato, un giorno tornerà.

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