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Libri: “Il calcio secondo Pasolini” – Pasolini giornalista sportivo: quando lo spettacolo è sugli spalti

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Pubblichiamo, come preannunciato (vedi video-intervista con l’autore qui), un estratto del libro “Il calcio secondo Pasolini” di Valerio Curcio, edito per Aliberti Compagnia Editoriale. Il testo, tratto dal capitolo in cui si descrive l’attività di Pasolini come giornalista sportivo, racconta di quando, nel 1957, fu inviato da “l’Unità” a seguire un derby romano vinto 3-0 dalla Roma. Ringraziamo l’autore Valerio Curcio e la Aliberti Compagnia Editoriale per averci dato la possibilità di pubblicare questo estratto in esclusiva per i lettori de Gli Eroi del Calcio.

Buona lettura.

Federico Baranello

 

Pasolini si cimentò in una varietà incredibile di forme, generi e linguaggi culturali. Non a caso Tullio De Mauro lo definì «il primo artista di grande livello internazionale che possa definirsi multimediale»[1]. La sua naturale vocazione a praticare e sperimentare nuove forme espressive lo portò a confrontarsi anche con un genere che, considerati il suo impegno giornalistico e la sua passione per lo sport, non poteva non attirarlo.

Nel corso della sua vita, infatti, ebbe più volte modo di commentare avvenimenti sportivi sui giornali o in televisione, attraverso interviste o rubriche curate personalmente. Furono però solo due le occasioni in cui intervenne da vero e proprio cronista, raccontando ai lettori l’evento sportivo a cui aveva assistito. Lo fece durante le Olimpiadi romane del 1960, con quattro famosi contributi pubblicati sulle pagine di «Vie Nuove» e tre anni prima, nel 1957, quando scrisse dalle pagine de «l’Unità» un singolare reportage dallo stadio Olimpico di Roma.

La prima occasione fu il derby Roma-Lazio del 27 ottobre 1957, vinto dalla Roma per 3-0. Pasolini si recò allo stadio assieme a Sergio Citti, amico e consulente di romanità per le sue opere. Il quotidiano aveva annunciato che la partita sarebbe stata seguita da cronisti d’eccezione di sponda laziale e romanista, tra cui Alberto Sordi. Diversamente da “Albertone”, tifoso giallorosso dai tempi di Campo Testaccio, Pasolini partecipò da osservatore più o meno imparziale e l’esito della partita non lo interessò granché: nonostante l’exploit dell’attacco giallorosso nel secondo tempo, per lui la sfida fu noiosa e nell’articolo la prestazione delle due squadre venne liquidata nel giro di qualche riga. D’altronde, se «l’Unità» aveva voluto affidare il racconto di quel derby a dei cronisti speciali è perché si aspettava una narrazione altrettanto fuori dal comune. Pasolini non deluse: più che dalla partita giocata, i suoi occhi furono attratti dai volti, dai colori, dalle frasi rubate ai tifosi. Proletari e borghesi, appassionati e disincantati, autoctoni e immigrati vengono passati in rassegna in un articolo che è un piccolo saggio socio-antropologico sui tifosi di calcio degli anni Cinquanta.

Nell’articolo, Pasolini descrive un tipo di tifoso da lui mal sopportato, che definisce di tipo “napoletano”, presente però in tutta Italia. È un tifoso totalmente irrazionale e talmente ammaliato dalla propria squadra del cuore, che non ascolta nessuno e nega anche i fatti più evidenti: «È illuminato, beato lui, da una specie di grazia. A nulla valgono i ragionamenti, e tanto meno le dimostrazioni e le esperienze di ogni domenica di fronte al gioco reale. Egli ha una porzione di cervello (la principale) staccata dal resto, e capace, sotto quell’illuminazione carismatica, di un solo, fisso, immutabile pensiero». La disconnessione dal mondo reale e dall’opinione altrui, l’inamovibilità e il suo essere “macchietta” lo portano all’umiliazione: «Io ho pena di quando vedo i tifosi, appunto, in maschera, con ciucciarelli, ecc».[2]

È contento di constatare la rarità di questo tipo di tifoso a Roma, almeno per ciò che riguarda le classi popolari: «Roma è veramente una grande città: l’identificazione del tifoso con la squadra non sublima sentimenti ristretti, provinciali e municipali. E poi nel romano c’è sempre quella dose di scetticismo e di distacco che lo preserva sempre dal ridicolo. Nella propria squadra egli non esalta glorie cittadine, meriti sportivi, e altre cose noiose di questo genere: egli esalta la propria “dritteria”. […] Ciò che fa più soffrire e gioire il romano alla sconfitta e alla vittoria della sua squadra è l’idea dei discorsi che dovrà fare al bar o dal barbiere. Certo! Un “dritto” può forse perdere? E se vince, può forse non dare dell’ironia – magnanima – sui vinti?». Tutto ciò, però, vale solo per i tifosi proletari, perché nel tifoso borghese «riaffiora la provincia». I sostenitori che più apprezza Pasolini sono però gli immigrati, gli ex contadini che vivono nelle baracche ai margini della metropoli, nelle nuove periferie: «Il loro amore per la Roma strappa le lacrime. L’amano disperatamente, e gridano poco: ingoiano dolori e macinano gioie in silenzio. E non dimenticano facilmente».[3]

L’articolo si conclude con il racconto dell’uscita dallo stadio, con l’entrata in scena del “Mozzone”, appellativo con cui era conosciuto Sergio Citti a Torpignattara, che prima della partita aveva chiamato Pasolini avvisarlo: «A Pa’, nun t’azzardà a dì male della Roma, eh!». Fuori dall’Olimpico, poi, dà lo spunto per il titolo: «Scrivi nell’articolo che er morto ancora puzzava, come semo usciti dallo stadio. E puzzerà tutta la settimana!». L’enigma è sciolto dalla fotografia che accompagna il pezzo: un gruppo di romanisti porta in corteo funebre una bara con scritto: «Qui giace la Lazio».[4]

Pasolini fu un frequentatore piuttosto assiduo dell’Olimpico. Gli piaceva vedere il calcio, osservare le persone che tifano, gioiscono e si disperano. «Non c’è nulla che assomiglia a uno stadio pieno di gente: anche i grandi pubblici del cinema, frazionati in mille sale e salette, non sono nulla in confronto a quella massa viva, ruggente, e infine, struggente, di spettatori», scrisse nel 1969.[5] Non andava in tribuna stampa, ma preferiva farsi portare da Citti in mezzo ai tifosi della Roma. Il suo interesse antropologico verso le masse popolari che popolavano gli stadi era affiancato da quello linguistico. Spesso si portava dietro l’immancabile blocchetto degli appunti, dove annotava espressioni o imprecazioni sentite sugli spalti.

Quella di rivolgersi più verso le tribune che verso il campo di gioco è un’abitudine che ritorna: lo fece anche assistendo a una partita di calcio ad Asmara nel 1973, quando si recò in Eritrea per girare Il fiore delle mille e una notte. Nonostante fosse una partita del massimo campionato nazionale, il livello lasciava ampiamente a desiderare: «Ma lo spettacolo – per chi, come me, fosse innamorato di tutti gli eritrei – era il pubblico: un pubblico gentile, ordinato, non privo di umorismo, con qualche scoppio però di violenza letteralmente selvaggia, alle porte d’ingresso, da parte di gruppi di ragazzetti, bastonati con altrettanta selvaggia violenza dai poliziotti».[6]

Lo stesso Sergio Citti, una decina d’anni dopo la morte di Pasolini, tornò allo stadio Olimpico per un Roma-Sampdoria: lo fece con una cinepresa in mano e anche lui rivolse il suo sguardo più agli spalti che al campo. Ne uscì il cortometraggio La partita.[7] Le riprese cominciano da fuori lo stadio, mostrando la massa di tifosi trepidanti che si avvicinano all’impianto, per poi essere fermati dalla polizia per i controlli ai tornelli. Citti fa grande uso del primo piano, scovando volti, espressioni e movimenti di singole persone. La cinepresa segue quindi il naturale flusso dei tifosi verso lo stadio, per poi gettarsi nell’ovale degli spalti e concentrarsi sui tifosi della Roma: da quelli in curva, che si sbracciano e battono i tamburi, a quelli in tribuna, più composti e attenti alla partita. La parte finale del cortometraggio è una rassegna di volti romanisti: si susseguono muti primi piani di persone intente a guardare la partita. Per Citti, come per Pasolini, la partita è una sorta di “osservatorio” privilegiato attraverso il quale scrutare e studiare il genere umano rappresentato dalla fattispecie del tifoso di calcio.

[1]Tullio De Mauro, Pasolini critico dei linguaggi, in L’Italia delle Italie, Editori Riuniti, Roma, 1987, p. 154-155

[2]Pier Paolo Pasolini, «Er morto puzzerà tutta la settimana!», L’Unità, 28 ottobre 1957.

[3]Ibidem.

[4]Ibidem.

[5]Pier Paolo Pasolini, Salvadore e la pace alla TV, Il Caos, in «Tempo», 4 gennaio 1969.

[6] Pier Paolo Pasolini, Le regole di un’illusione, Fondo Pasolini, Roma, 1991, p. 289-90. Citato in Valerio Piccioni, Quando giocava Pasolini., p.11.

[7]Sergio Citti, La partita, film-documentario.

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