Dimenticato totalmente, dolore Roberto Baggio: è tutto scritto - Glieroidelcalcio.com (screen Youtube)
Dimenticato totalmente, dolore Roberto Baggio: è tutto scritto - Glieroidelcalcio.com (screen Youtube)
Ricordare Roberto Baggio e le sue imprese quasi non serve. A distanza di ormai 15 anni però il dolore è profondo: un campione totalmente dimenticato.
Ci sono figure che il tempo non riesce a sbiadire. Anzi, più gli anni scorrono più la loro sagoma diventa nitida, quasi necessaria. Roberto Baggio appartiene a questa categoria ristretta e irripetibile. Uomini che trascendono il ruolo, che superano la definizione di “campione” per diventare simboli culturali, morali, emotivi. Raccontare Baggio significa ripercorrere una strada che ogni italiano conosce a memoria: Vicenza, Firenze, Torino, Bologna, Milano e infine Brescia, ultima tappa di un viaggio sportivo che ha lasciato un segno profondo, forse ancora non completamente elaborato.
La grandezza di Baggio non risiede solo nei numeri, pur eccellenti, né nelle imprese memorabili, ma nella sua capacità di restare umano anche quando tutto attorno chiedeva divismo e spettacolo. Il suo rapporto con il calcio è sempre stato un filo teso tra meraviglia e sacrificio, tra genialità e dolore fisico, tra libertà creativa e necessità tattica. Un rapporto che ha continuato ad alimentarsi anche dopo l’addio al campo, quando la FIGC gli affidò nel 2010 la presidenza del Settore Tecnico con l’obiettivo, ambizioso e delicato, di immaginare un nuovo futuro per il calcio italiano.
In quel ruolo Baggio si immerse con lo stesso rigore con cui preparava un Mondiale, attraverso studio, analisi, confronto, ascolto. Non era un incarico simbolico né ornamentale. Baggio voleva riformare davvero la base del movimento, dalla formazione degli allenatori all’individuazione precoce dei talenti, dalla digitalizzazione dei processi di scouting alla modernizzazione metodologica. Chi lo ha visto in quei mesi racconta di un uomo appassionato e meticoloso, convinto che il calcio italiano avesse bisogno di una svolta culturale prima ancora che tecnica. Ma allora, come oggi, il suo senso di responsabilità finì per scontrarsi con una macchina federale lenta, titubante, spesso impermeabile alle innovazioni.
Il celebre dossier da 900 pagine che Roberto Baggio consegnò alla FIGC nel 2011 è diventato, col passare degli anni, un documento dal valore quasi archeologico, non perché riguarda un passato remoto, ma perché conserva al suo interno un futuro che non abbiamo mai avuto il coraggio di costruire. Quello che avrebbe dovuto essere il piano strategico per rifondare l’intero sistema giovanile italiano fu ascoltato con cortesia, applaudito formalmente e poi riposto in un cassetto. Nessun investimento reale, nessun cronoprogramma, nessuna volontà politica. La riforma rimase sulla carta, e con essa l’ultima vera occasione di allinearsi ai modelli che allora stavano trasformando Germania, Francia e Spagna.

Il paradosso è evidente e, a tratti, doloroso. Tutte le criticità che Baggio aveva individuato – carenza di talenti, scarsa formazione degli allenatori di base, vivai disomogenei, pochi minuti ai giovani in Serie A, ritardi metodologici e digitali – sono oggi emergenze conclamate. La Nazionale si trova a inseguire, a mendicare qualificazioni che un tempo erano quasi scontate, a convivere con l’incubo concreto di mancare un terzo Mondiale consecutivo. Il “declino” che Baggio aveva previsto non era una previsione pessimistica, ma una diagnosi lucida che nessuno volle ascoltare.
A distanza di quindici anni, quel dossier ignorato ritorna come una ferita aperta. Non perché Baggio avesse la bacchetta magica, ma perché il suo piano affrontava i nodi strutturali del nostro movimento con una chiarezza che oggi appare quasi profetica. Invece l’Italia ha scelto l’immobilismo, la gestione ordinaria, l’inseguimento dell’emergenza. Il risultato è un Paese calcistico che fatica a produrre talento, che non innova, che non sperimenta, che vive di slanci episodici e di rimpianti sistematici.
