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La Penna degli Altri

Armando Picchi, dal gabbione di Livorno al Prater, un rivoluzionario mite

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INTERDIPENDENZA.NET (Mario Spolverini) – […] Il 27 maggio del 1964 a ViennaPicchi alza da capitano la prima Coppa dei Campioni nerazzurra. Esattamente un anno dopo, il 27 maggio del 1965 a Milano, il capitano nerazzurro alza la seconda Coppa. Il 27 maggio del 1971 arriva la notizia che Armando Picchi è morto in una clinica di Sanremo stroncato da un tumore fulminante. Il pezzo potrebbe chiudersi qui e avremmo già spiegato grandezza e tragedia di un uomo tanto dominatore in campo quanto indifeso di fronte alla sorte.

[…] All’Inter Picchi era arrivato nell’estate del 1960, dopo una splendida stagione disputata da terzino alla Spal […] Nella stessa estate a Milano era arrivato Helenio HerreraAngelo Moratti gli affida guida e budget per tornare a vincere. L’Inter parte bene, Picchi addirittura decide il derby con uno dei suoi rarissimi gol, alla fine del girone d’andata i nerazzurri comandano con 3 punti di vantaggio sul Milan.  Ma il giocattolo si rompe, a primavera una striscia negativa di 4 sconfitte consecutive fa sfiorire ogni speranza.

Il film si ripete l’anno dopo, nerazzurri campioni d’inverno e Milan campione d’Italia alla fine. Moratti si sta convincendo che abbia ragione chi critica Herrera per i suoi allenamenti maniacali che mandano le energie dei ragazzi in riserva anzitempo. Il Presidente pensava di chiamare al capezzale dell’Inter Edmondo Fabbri, ma fu proprio Picchi a bloccare la sostituzione, convincendo Moratti con i fatti: Herrera aveva già trovato la soluzione, con il capitano che retrocedeva dietro la linea di difesa per dare il via all’azione e Burgnich terzino al suo posto. Nasceva il “libero alla Picchi”, ruolo che non avrà altri padroni dopo di lui. Baresi, ScireaBeckenbauer, campioni immensi, tecnicamente forse anche superiori, ma nessuno come lui per carisma e intuizione. Armando Picchi pensava prima, vedeva prima, arrivava prima, tutto semplicemente prima degli altri. E questo faceva di lui il vero allenatore in campo, anche perché Herrera era grande motivatore, grande comunicatore, grande conoscitore di uomini, ma quanto a tattica e capacità di leggere quel che succedeva in campo non era una cima. Lì, in quel momento per quelle decisioni, entrava Picchi. Herrera sapeva e non gradiva.

[…] Picchi non era solo capitano e trascinatore in campo, era il capo, quello che trattava con la dirigenza anche per i compagni, il loro sindacalista […] Picchi contestava senza arroganza. Era portatore di una ribellione sana, intelligente, che produceva buoni cambiamenti” fotografa perfettamente la Gazzetta. L’Armandino e HH si rispettavano ma si prendevano poco. La livornesità viscerale gli  imponeva  generosità, odio per le ingiustizie, assenza di timori reverenziali, repulsione per i ruffiani. Anni fa, Nando Dalla Chiesa presentando il suo libro su Picchi “Capitano, mio Capitano” spiegava il rapporto tra i due partendo da una osservazione che niente aveva a che vedere con il calcio: “Picchi detestava la cultura del “dinero” introdotta in Italia da Herrera, Herrera era cresciuto in una famiglia poverissima, aveva conosciuto la fame vera e nera. Picchi venne su in un ambiente benestante e ricevette impulsi importanti.” Per lui giocare a calcio è sempre stato solo un piacere, per HH era la sua rivincita sulla vita. Spiegata così la differenza di veduta del mondo tra Picchi ed Herrera, torniamo a noi perché l’antropologia non entravano in campo, lì regnava il carisma, la capacità e l’intelligenza tattica, dunque regnava il capitano. Il Mago all’inizio si fidava del suo capitano, ma non era tipo da concedere di vivere nell’ombra di un suo giocatore.

[…] Picchi diventa leggenda con gli scudetti del 1963, 1965,1966, le due Coppe dei campioni e le due Intercontinentali. Quando stava per iniziare la prima finale europea al Prater contro il Real di Puskas, lo spogliatoio nerazzurro fremeva, in qualche misura ancora incredulo di essere proprio lì. Federico Buffa racconta quei minuti di Picchi : prima prese da una parte Sandro Mazzola per ricordargli che suo padre lo stava guardando di lassù, poi pretese il silenzio e l’attenzione dello spogliatoio. :”Signori! Un minimo di silenzio. Carlo (Tagnin) ha qualcosa da dirci”. E Tagnin commosse tutti. “Signori, io non son come voi. Voi siete dei campioni. Voi di partite come questa ne giocherete tante altre nella vostra carriera, ma io no. Io sono certo che non ne giocherò più. Per favore, vincete anche per me”.

[…] A Sofia il capitano gioca la sua ultima partita con la maglia dell’Italia: uno scontro violentissimo con un certo Jakimov gli procura la frattura del tubercolo sinistro del bacino. Il destino bastardo stava iniziando la sua opera, Picchi provò a recuperare dopo la convalescenza lunghissima ma non ci fu niente da fare.

Da allenatore in campo a mister a tutti gli effetti il passo fu breve, alla faccia dei patentini.

[…] il 7 febbraio 1971, la Juve è di scena a Bologna e si capisce che qualcosa non va. Picchi è stranamente nervoso, si alza dalla panchina per protestare con l’arbitro Mascali e viene espulso. Nessuno poteva immaginare cosa avesse dentro in quel momento quell’uomo fiero e apparentemente indistruttibile lasciando il campo a testa bassa.

[…] Un intervento chirugico non risolse alcunchè,  pochi giorni dopo la società convocò i giornalisti per comunicare in via riservata che la sorte di Picchi era segnata, pregandoli di mantenere il riserbo necessario per non avvelenare ulteriormente i giorni drammatici che il tecnico  e la sua famiglia avevano davanti. Non uscì una riga, non era omertà pietosa come qualcuno l’ha definita ma grande, enorme rispetto umano per un campione che se ne stava andando. Avuta la conferma del male incurabile, Picchi lasciò la clinica per trasferirsi in una villa sulla riviera ligure.

[…] Dopo la sua morte si scoprirono nuove testimonianze di quanto fosse grande l’animo del Capitano. Da un cassetto vennero alla luce lettere nascoste per anni, i ringraziamenti commossi di chi aveva ricevuto il suo aiuto: soldi a bambini bisognosi, una parola per trovare un lavoro ai disoccupati, tanti piccoli gesti di sostegno a chi era in carcere. “Tutto fatto in un meraviglioso silenzio” – dice Repubblica nel novembre del 2011 –  così diverso rispetto alla solidarietà show di tanti atleti dei giorni nostri […]

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