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Atalanta-Napoli amarcord: Mondonico, la sedia e i Rolling Stones

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ILNAPOLISTA.IT (Davide Morgera) – Calcio in soffitta / Uno dei tecnici che ha occupato entrambe le panchine, e che ha segnato la storia del calcio italiano.

Tra tutti, il Mondo

Bianchi, Lippi, Mondonico, Mutti e Reja. Inizierebbe così la filastrocca dei tecnici che si sono scambiati le panchine di Atalanta e Napoli nel corso degli ultimi trenta anni. Noi dal cilindro ne estraiamo uno solo, quello che giace nel mezzo, per il suo carattere, in campo ed in panchina, e per ricordarlo ancora una volta. Dalla ‘normalità’ degli altri tecnici emerge lui, Emiliano Mondonico, che rappresenta ancora oggi, nell’immaginario di chi ha seguito il calcio sanguigno di una volta, l’allenatore antidivo per eccellenza.

È vivido il ricordo di quel baffo furbo davanti ai nostri occhi e quel modo di parlare che sembrava venir fuori da una perenne nebbia padana, da un pasto caldo, un bicchiere di vino e l’odore acre di un camino. E una partita a briscola. Non a caso i suoi genitori gestivano una trattoria proprio sulle rive del fiume Adda tra bruma, umidità e foschia.

Un piccolo Meroni

In quell’ambiente ‘rustico’ non fu difficile per il piccolo Emiliano passare all’oratorio, dove si appassiona sempre più al calcio. Un luogo magico, un punto di arrivo fermo nei futuri calciatori degli anni cinquanta e sessanta dove ai ragazzi veniva finalmente fornito un rettangolo (non sempre verde, anzi…) per dare sfogo ai propri istinti. È qui che lo nota un osservatore della Cremonese e gli fa firmare il primo contratto della carriera a 19 anni. Nella città del torrone, in due stagioni, Emiliano mette a segno 19 reti nonostante non giochi da punta pura. Anzi gli piace svariare, dribblare, andare in fondo e crossare, inventare giocate.

Insomma il suo modello è Gigi Meroni, un funambolo ed un giocoliere, un genio di quegli anni. Quando il Toro perde la ‘farfalla granata’ per il tragico incidente, la società cerca un giocatore che sia in grado di sostituirlo, non nei cuori dei tifosi, per i quali Meroni era un idolo da venerare, ma almeno in campo. Fu così che Mondonico, dal grigio rosso della Cremonese passa al granata del Torino. I dirigenti vogliono far crescere il ‘prospetto’ dietro i titolari delle due fasce, ovvero Carelli, a cui è passata la maglia numero 7 di Meroni, e Facchin.

Sotto la Mole, però, il suo rendimento è piuttosto alterno, non gioca sempre e in due anni colleziona solo 14 presenze con due reti. Il motivo è presto spiegato. Nel suo primo anno lascia intravedere buoni numeri ma l’allenatore Edmondo Fabbri non sembra fidarsi molto di quel capellone. Quando poi arriva Claudio Sala proprio dal Napoli la sorte di Mondonico sembra segnata. Poche presenze all’ombra del ‘poeta del gol’ e poi il passaggio al Monza in Serie B. Qui fa molto bene realizzando 7 reti in 23 presenze e giocando molto più vicino alla porta. Il giocatore c’è, ha la stoffa per tornare nella massima serie, là dove lo aveva lanciato il Torino.

Il passaggio all’Atalanta

È a quel punto che il giovane e rampante mister Corsini, nell’estate del 1971, lo chiede espressamente al presidente dell’Atalanta Bortolotti. Va bene, l’affare va in porto nonostante, nelle gerarchie, davanti a lui ci siano già Doldi e Leonardi. Mondonico, però, ha solo 24 anni, ha bisogno di giocare, di sentire la fiducia dell’allenatore, della società e dei tifosi. Questa pozione magica non verrà, sfortunatamente per lui, fuori dal calderone e allora il ‘Mondo’ resta ai margini della squadra. A fine torneo il suo curriculum dice solo due presenze e nessun gol.

Del resto la Bergamasca arriverà undicesima e conquisterà la salvezza con tre giornate di anticipo mostrando un mix compatto e granitico tra giovani ed esperti. Tra i primi c’è un potenziale ‘crack’, si chiama Giovanni Vavassori e l’anno seguente sarà acquistato dal Napoli. Tra i secondi c’è un mediano che in campo si fa sentire per quantità e qualità, si chiama Ottavio Bianchi e l’anno prima giocava nel Napoli. Nel mezzo giocatori di valore come l’attuale presidente Percassi, un ottimo portiere come Rigamonti, due terzini feroci come Maggioni e Divina, un centrocampo con due specialisti, Savoia e Sacco, ed un attacco che confida nella vena di Magistrelli. Quell’anno, nell’ultima giornata di campionato, il 28 maggio del 1972, l’Atalanta dà tre pappine al Napoli ed Altafini segna il suo ultimo gol in maglia azzurra.

Il ritorno a casa

Allora dove poteva rigenerarsi e trovare finalmente la vena giusta il nostro Emiliano? Ma a casa, naturalmente. A Cremona, tra B e C, esplode e lascia il segno con 180 presenze e 70 gol per un matrimonio che dura sette anni senza accusare nessun cedimento. È una bella storia quella del ‘propheta in patria’, la fedeltà al grigio rosso, ai  paesaggi della sua terra, alle chiese, al borgo medievale, al sapore delle osterie e il silenzio dell’oratorio nel momento della preghiera. Negli ultimi anni alla Cremonese è già un allenatore in campo, ha capito che il suo futuro è quello di trovare una panchina.

A 33 anni lascia il calcio giocato con molti rimpianti ma con la consapevolezza che ha dato quanto poteva. È stato eroe nella sua terra, questo gli era bastato. Fa nulla se non è riuscito ad emulare o avvicinarsi alla carriera del suo idolo Meroni, capisce che quel giocatore era di un altro pianeta. Non è il momento del rimpianto, non è il caso di rimuginare su quello che poteva essere e non è stato.

L’estate seguente al suo addio al calcio è già in campo ad allenare le giovanili della Cremonese. Tre anni coi ragazzini e poi la prima squadra. Prende possesso della ‘cattedra’ a 35 anni, nel 1982 e porta subito i grigio rossi in Serie A dopo più di mezzo secolo di assenza. Da lì in poi il suo nome diventa tra i più gettonati e la gavetta parla di Como, Atalanta e Torino dove gestisce benissimo squadra e spogliatoio. A Bergamo fa doppietta, guidando i nerazzurri in due diverse occasioni. La prima nel 1987, dove rimane fino al 1990, e la seconda dal 1994 al 1998.

Dopo l’ennesimo ritorno al Torino, nel 2000 lo chiama il Napoli a sostituire Zeman dopo sei partite. E il suo ingaggio diventa la barzelletta d’Italia. Sia Corbelli che Ferlaino, infatti, dichiarano che l’allenatore non l’hanno scelto loro; cronisti segugi arrivano alla conclusione che il baffo di Rivolta d’Adda lo ha mandato Moggi tramite i buoni uffici di Gigino Pavarese  – che, pare, l’avesse appellato qualche tempo prima come uno degli allenatori più scarsi al mondo. Il suo mandato al Napoli funziona raramente, il suo 3-5-2 ancora meno.

Ovviamente Mondonico boccia il 4-3-3 zemaniano e si arrocca su posizioni più accorte, affida le chiavi del centrocampo ad un bergamasco doc come Oscar Magoni e cerca di sollevare il morale ai sei nazionali del Napoli (Vidigal, Saber, Sesa, Matuzalem, Jankulowski e Husain), riuscendovi solo raramente. A lui va bene anche il punto fuori casa. Ciò che lo tradirà, purtroppo, sarà ancora un punto. È quello che il Napoli perde in casa col Brescia (pareggio di Baggio al 92′ su punizione) e sarà quello che serviva agli azzurri per salvarsi a fine campionato. La classifica condanna il Napoli al ritorno in B dopo appena un anno e Mondonico torna in Lombardia a trascorrere intere giornate in campagna con i suoi stivaloni ed i pantaloni di velluto.

I Rolling Stones

La sua vita, però, a dispetto di chi lo ha conosciuto da allenatore maturo, da italianista ‘pane e salame’, è stata movimentata, vivace e perfino avventurosa. E se proprio vogliamo metterla sul piano del gioco di parole, Mondonico non poteva non nascere in un posto chiamato ‘Rivolta d’Adda’. Lui, la sua esperienza da calciatore l’ha rivolta-ta come un calzino, l’ha vissuta da giovane ribelle, insofferente a tutti i dettami che potevano arrivargli dall’alto. Nella gerarchia dei ‘cani sciolti’ dei tumultuosi anni sessanta, Mondonico viene subito dopo Meroni, Best, Zigoni, Bob Vieri e Vendrame tanto per citare i casi più clamorosi. Giocatori della generazione dei cavalli selvaggi, tutto genio e sregolatezza, caratteri insofferenti a regole e ordini, fuori dalle norme e dagli schemi, figli del loro tempo.

La storia, che oggi sembra fantascienza calcistica, è nota un po’ a tutti. È l’aprile del 1967, a Milano si esibiscono i Rolling Stones, Mick Jagger e Brian Jones stanno facendo ammattire milioni di giovani come i Beatles con le loro chitarre e i ritmi indiavolati dei primi album. Tra questi giovani c’è anche lui, Emiliano Mondonico, venti anni, giocatore più che promettente della Cremonese. Allora il futuro baffo che fa? La domenica precedente il concerto degli Stones si fa espellere per poter essere libero, per potersi trovare tra le migliaia di giovani che avrebbero affollato il Palalido di Milano la settimana successiva.

Accade che per tutta la gara riempie l’arbitro di parolacce fino a quando, a fine partita, il direttore di gara lo scopre. E lo fa squalificare. E’ quello che lui voleva, è quello che i capelloni come lui, con i poster delle riviste alla moda, avevano in camera. Bandite le sfumature alte, la rivoluzione partì da lì, dai capelli. Era come andare contro i genitori, la società tutta, l’essere bigotti, la noia ed il perbenismo. «Da Sanremo, Tony Dallara, Orietta Berti e Celentano mi trovai di fronte ai Rolling Stones e Jagger. Era uno spettacolo sconvolgente, diverso, che ti prendeva», disse così qualche anno più tardi il ‘Mondo’ quando confessò il motivo della sua squalifica.

Quella sera Brian Jones degli Stones era seduto su una sedia di legno. Una simile Mondonico la prese per alzarla in segno di protesta ad Amsterdam nel 1992 quando il Torino fu sconfitto dall’Ajax in Coppa Uefa Proteste e rivolte, il giovane Mondonico ritornò 25 anni indietro. A quando tormentò un arbitro per andare a vedere i Rolling Stones.

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