Libri: “SPAGNA 1982 – Il Mundial di Bearzot”. La filosofia calcistica del C.T. - Gli Eroi del Calcio
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Libri: “SPAGNA 1982 – Il Mundial di Bearzot”. La filosofia calcistica del C.T.

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Per la rubrica “Libri” abbiamo raggiunto e intervistato Francesco Zagami, autore del libro “SPAGNA 1982 – Il Mundial di Bearzot”, edito da Urbone Publishing

Il Mondiale di Spagna del 1982, conclusosi felicemente con la vittoria finale di Madrid l’11 luglio, rappresenta l’episodio più coinvolgente della storia della nostra Repubblica dal punto di vista emozionale. Per la generazione di chi scrive (comprendente coloro che sono nati nei primi anni settanta) sono la colonna sonora, l’apoteosi stessa delle emozioni: esse furono vissute quasi in una dimensione onirica.

Oggi l’ultimo appuntamento con l’estratto che ci racconta la filosofia del tecnico friulano.

Si ringrazia la casa editrice Urbone Publishing per l’opportunità.

Buona lettura

Il team de GliEroidelCalcio.com

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La difesa dei propri giocatori era uno dei punti cardini del suo modo di essere allenatore, un assioma, una conseguenza logica di quel principio ultimo del “gruppo”, faro che illuminava l’opera di Bearzot. Ma, nel contempo, aggiungeva che sarebbe stato pronto ad andarsene. È da rilevare già da subito che, in barba alla stampa che lo tacciava di conservatorismo sterile, Bearzot aveva una granitica certezza, un principio ispiratore, una guida di carattere etico: ovvero quello di credere che un certo insieme di giocatori potesse diventare vincente solo se fosse stato coeso, in modo da formare una famiglia allargata di giocatori esperti, su cui poter contare anche nelle situazioni più disperate. Si doveva trattare, in verità, di professionisti eclettici, polivalenti, evitando però dualismi come quello che nel ’70 aveva coinvolto Mazzola e Rivera. Dunque, per Bearzot si doveva selezionare un gruppo con certe caratteristiche, che, a forza di giocare insieme svariate volte, sarebbe maturato, si sarebbe amalgamato, diventando autentica ed efficace squadra.

E così anche 11 calciatori mediocri possono mutarsi in una buona formazione. I mondiali di Spagna avrebbero confermato tale assioma di Bearzot con gli esempi dell’Algeria, poi ingiustamente eliminata dall’accordo austro-tedesco di Gijón, e della Polonia; in entrambi i casi il gruppo nasceva dal fatto che i calciatori erano sempre abituati a giocare a stretto contatto nella stessa nazione di origine, dato che nei due Paesi citati, sia pure per ragioni diverse, fino a quasi 30 anni non era permessa la militanza in campionati esteri. E se poi una squadra avesse annoverato uno o più campioni, si sarebbe potuta valorizzare con effetti moltiplicativi la forza aggiunta, allo scopo di mirare in alto quanto ai risultati (questo può spiegare come alla vigilia del Mundial diversi giocatori italiani pronosticavano un campionato da prime posizioni, nonostante lo scetticismo imperante). il gruppo in linea di massima era predisposto nel modo seguente: il portiere, Dino Zoff della Juventus, un monumento, al quarto mondiale, già campione d’Europa nel ’68, essenziale nel suo mestiere. Ma non ne mancavano i detrattori, che facevano leva anche sulla sua età. Il libero era il grande e indimenticabile Gaetano Scirea della Juventus. Persona seria, umile e rispettosa, Bearzot lo considerava un dono del cielo quando lo conobbe nell’under 23 (amaramente, una decina di anni dopo, il CT avrebbe dovuto chiosare che il cielo se l’era ripreso troppo presto). Scirea era nato calcisticamente come centrocampista. Sapeva quindi anche impostare il gioco, oltre che difendere egregiamente. Una sorta di moderno regista arretrato, capace di avanzate per supportare il gioco offensivo. Poi un difensore centrale e uno esterno, individuati rispettivamente in Collovati e Gentile. Fulvio Collovati, molto abile nel gioco aereo, era dotato di un’ottima capacità di anticipo (la sua dote migliore). Questo gli consentiva di evitare scontri con gli attaccanti avversari e la necessità di essere ruvido, sebbene nelle giovanili del Milan da Nereo Rocco avesse appreso di calciare qualunque cosa si muovesse in campo (e se era il pallone, pazienza!). Gentile (in sua vece Bearzot avrebbe trovato una valida alternativa in Bergomi, selezionato a dispetto della giovanissima età) fungeva da marcatore esterno.

Ma era capace anche di operare benissimo  da stopper e di portarsi in avanti per collaborare alla costruzione del gioco a centrocampo o per crossare in area avversaria, come pure sapeva fare i gol – non si dimentichi che nella Juve in carriera avrebbe giocato in tutti i ruoli, tranne che come portiere, libero e punta. Quindi, un terzino sinistro  (Cabrini, eventualmente sostituibile con Oriali, quest’ultimo arruolato da Bearzot per la sua grande duttilità tattica che permetteva di spaziare fra più soluzioni). Cabrini sapeva difendere come pochi, svolgere compiti da cursore fluidificante e concludere in rete. Due gli interni (uno con più attitudini interdittorie per aiutare la difesa – in genere Oriali o Marini – uno con più capacità offensive, ovvero Tardelli). Gabriele Oriali, mediano arretrato, era cresciuto calcisticamente come terzino ed era diventato nell’Inter un mediano incursore. Capace quindi di difendere come di attaccare, è stato un’autentica cerniera tra i vari reparti. Molto utile nella marcatura del regista avversario, è stato una spina nel fianco per la squadra avversaria per via della sua svelta corsa. Delle sue qualità di incursore, ogni tanto approfittava per sortite in avanti che potevano fare male. Marco Tardelli, juventino, ex terzino, è stato una mezzala universale, un autentico tuttofare nella zona di destra, abile a convertirsi non solo in attaccante aggiunto, ma anche in difensore. Seguiva un’ala destra tornante, per certi il vero regista della squadra, Bruno Conti della Roma, il più brasiliano della squadra per la sua creatività e i suoi dribbling che spesso lasciavano sul posto gli avversari. Questo lo portava a operare vari cross talvolta decisivi. Poi una mezzala a tutto campo avanzata a sinistra (Antognoni). Infine, due attaccanti capaci di scambiarsi: un centravanti, che per Bearzot doveva essere Rossi, e un’ala sinistra che nella fase finale di Spagna ’82 il CT avrebbe voluto fosse ancora Bettega, ambedue pronti a spaziare nell’area di rigore (con Graziani e Altobelli di rincalzo). Anche in questo settore Bearzot riteneva possedere solide e indiscutibili certezze, malgrado le riserve ricorrenti.

La prima sicurezza era impersonata dall’ormai compianto e inobliabile, al pari di Scirea, Paolo Rossi, nonostante tutti i dubbi che si addensavano alla vigilia del mondiale. Forse era migliore da ala destra, ovvero nella zona occupata precedentemente durante la militanza nel Vicenza. Come centravanti poteva avere dei limiti: esile, non aveva un tiro potente alla Gigi Riva, per dire qualche nome, e non aveva il dribbling ubriacante di un Conti, per esempio. Ma aveva una dote che lo ha consegnato alla storia calcistica italiana. Una capacità rara di leggere la dinamica del gioco d’attacco, che lo conduceva con uno scatto bruciante a posizionarsi prima degli altri nel punto giusto, al fine di risultare micidiale. Un opportunista e un rapinatore d’area di rigori unico. Un raro predatore, un ragguardevole professionista dei blitz nell’area avversaria, non per virtù di forza, ma per intelligenza e intuito tattico. Nelle mischia sembrava scomparire: ma all’improvviso era capace di emergere e di metterla dentro come nessun altro. Lo stesso Rossi ha ammesso i suoi pregi e “difetti”: “La natura non mi ha dato grandi doti atletiche” spiega Paolo quando gli chiedono quale fosse il suo segreto. “Quindi mi sono dovuto fare furbo, giocando sempre d’anticipo, pensando sempre un secondo prima del mio avversario quale fosse la cosa migliore da fare. Insomma, prendevo quei due metri di vantaggio all’inizio dell’azione e li facevo fruttare: alla fine, quei due metri costavano carissimi a chi li aveva persi”[1].  La seconda certezza, Francesco Graziani della Fiorentina, è stato un moderno attaccante di movimento. Non era più il prolifico centravanti ammirato nel Torino del biennio 76- 77.

Si muoveva in lungo e in largo, portandosi a ridosso del centrocampo per collaborare alla costruzione dell’azione ed era abituato a pressare e marcare il libero avversario (attitudine maturata nel Torino di Radice), per cui non disdegnava, se necessario, di dare una mano in chiave difensiva. Ma all’occorrenza sapeva ritrovare la vena realizzatoria, oltretutto facilitata da un buon tiro e da un’eccellente capacità di gioco aereo. Nella finale contro la Germania, per causa dell’infortunio di Graziani dopo pochi minuti, giocò per quasi tutta la partita l’interista Alessandro Altobelli. Un ottimo centravanti, fra i più completi apparsi in Italia, dotato di buon tiro, forte di testa, capace di dribblare anche negli spazi stretti. In conclusione, una sorta di 4-4-2[2], a occhio e croce (un libero capace di rilanciare l’azione e non molto distante dallo stopper, un marcatore, un terzino sinistro incursore e uno destro, pure capace di galoppare nella fascia e crossare; un centrocampista di interdizione, due mezze ali universali, a tutto campo, una più di quantità, una più di qualità, un’ala tornante capace di far ripartire il gioco, due attaccanti), ma molto duttile, facilmente modificabile in 3-5-2 (quando, con il pallone in possesso dell’Italia, il libero si portava a dettare l’azione a centrocampo o il terzino sinistro avanzava), o in 5-3-2 (in caso fosse necessario aggiungere un marcatore, quando in attacco vi era l’avversario). Una zona mista (con marcature a uomo quando e dove occorresse e la zona a metà campo), interpretata da un team assemblato di giocatori universali, a cui non mancava la velocità, con possibilità di rapidi inserimenti di difensori e centrocampisti in attacco. Il sistema per Bearzot non era statico ed era soggetto a varianti, potendo per esempio esigere anche le ali a protezione della difesa, come nella partita del 5 luglio 1982 contro il Brasile: aveva una sua dinamicità ed elasticità di proposizione anche (o soprattutto) in rapporto alla squadra affrontata. Perché non si vincono le partite solo con il gruppo: è necessario affrontare nella maniera più adeguata l’avversario.

Bearzot al riguardo predicava che la partita si prepara innanzitutto studiando la squadra che ci si troverà di fronte, in modo da circoscrivere i suoi punti forti e da colpirla in quelli deboli (il CT sarà magistralmente abile nell’adottare questi principi nel corso di  Spagna ’82 contro Argentina, Brasile e Germania Ovest, soprattutto contro i carioca).

 

[1] D. Zoff, Dura solo un attimo, la gloria. Oscar Mondadori, Milano, 2018,  pp.  166-167.

[2] Si veda anche A. Guasco, Spagna ’82. Storia e mito di un mondiale di calcio, Carrocci Editore,  Roma, 2016, p. 23.

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