Anni di rivoluzione: il calcio italiano dal dopoguerra agli anni ’60
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Anni di rivoluzione: il calcio italiano dal dopoguerra agli anni ’60

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Calcio italiano anni '60

Il calcio italiano dal dopoguerra agli anni ’60

Il ventennio che va dalla fine della Seconda guerra mondiale alla metà degli anni ‘60 è stato per il calcio italiano un momento di trasformazione che trova pochi paragoni nella storia recente. Nel giro di meno di due decenni, il movimento calcistico mutò completamente forma, abbandonando quanto rimasto delle sue radici elitarie e dilettantistiche per abbracciare un nuovo corso pienamente orientato alle logiche di investimento e profitto, sostenuto da un seguito massiccio nella popolazione e capace di generare un imponente fenomeno culturale che avrebbe plasmato la cultura italiana negli anni a venire. Esaminata con il senno di poi, la mutazione fu rapidissima, soprattutto se paragonata ad altri fenomeni come l’entrata degli sponsor o delle televisioni tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80.

Lo sviluppo del calcio italiano nel corso del dopoguerra è un argomento complesso e difficile da sintetizzare, ma allo stesso tempo è estremamente interessante ripercorre le tappe di questa mirabolante mutazione, anche per sommi capi.

Il football usciva dalla guerra malconcio, ma a conti fatti non troppo danneggiato. Soprattutto, non si era mai realmente smesso di giocare durante il conflitto. Una pletora di tornei locali, alcuni limitati a una sola città ma altri ben più estesi, avevano garantito un minimo di continuità sportiva. Anche nell’Italia settentrionale, che pure era rimasta sotto il controllo nazifascista fino all’aprile del 1945, si era continuato a giocare a pallone ogniqualvolta si era presentata l’occasione, ricorrendo anche a stratagemmi furbeschi come l’ingaggio dei calciatori da parte di aziende ritenute fondamentali per lo sforzo bellico (con tanto di improbabile “partnership” tra FIAT e Torino!).

Al fine di evitare il loro arruolamento tra le file dell’esercito di Salò. Il calcio soffrì di più in termini dirigenziali: la FIGC subì una scissione dopo l’8 settembre 1943, con la compresenza di due federazioni per tutto il resto del conflitto. Inoltre, la sua classe dirigente si era legata mani e piedi al regime e, almeno in un primo tempo, non sembrava in grado di recuperare immediatamente le posizioni che aveva occupato prima del conflitto. A rimettere insieme i cocci fu l’operato di Giulio Onesti e Ottorino Barassi, le due principali personalità dello sport italiano dell’epoca.

A dire la verità, Onesti venne messo a capo del CONI, con la benedizione di Pietro Nenni, con la speranza di liberarsi dei cocci suddetti e di tagliare quanto più possibile i ponti con lo sport fascista. Onesti però non aveva la stoffa del liquidatore, quanto quella dell’abile tessitore di compromessi. Rivitalizzò il CONI mediando con i vecchi apparati fascisti, mentre tentò la via della riforma al momento di intervenire sulla FIGC “grande malata” dello sport italiano, mettendo al timone Fulvio Bernardini.

Tuttavia Bernardini non si dimostrò particolarmente incline agli intrighi di palazzo e questo aprì la strada a Barassi che lo sostituì, rimanendo aggrappato con le unghie e con i denti alla carica di presidente fino al 1958. Barassi e Onesti sono stati al centro di tutti i principali eventi che hanno segnato il calcio italiano del decennio della sua ricostruzione, in una sequela fantascientifica di catastrofi sportive (Brasile 1950, Svizzera 1954 e infine Svezia 1958 che costò la poltrona proprio a Barassi); tentavi di riforma quasi sempre smorzati delle pressioni dei club e delle leghe (una su tutte: la proposta delle non-retrocessioni al congresso di Firenze 1953); scandali e relativi aggiustamenti dei campionati (“Caso Napoli” nel 1948, “Caso Settembrino” e “Caso Scaramella” nel 1955); infinite dispute sul calciomercato e i trasferimenti degli stranieri (“veto Andreotti” del 1953).

Non si trattò però solo di abili profittatori, ma anche di dirigenti che seppero cogliere alla perfezione lo spirito dei tempi, nascondendo dietro all’apparenza di una linea moderata un’enorme capacità di adattamento e di influenza sulle dinamiche di potere del calcio italiano. Sotto la loro guida, il movimento sportivo accrebbe la sua influenza a ritmi vertiginosi. Complice l’abile sfruttamento dei fenomeni mediatici come quelli del Grande Torino, il calcio si guadagnò le attenzioni dell’intero paese e soprattutto aprì la via all’ingresso di una nuova generazione di presidenti capaci di importare spirito imprenditoriale e politiche di gestione innovative.

Quando, dopo l’ennesimo fallimento sportivo della nazionale, Barassi venne silurato proprio da una pattuglia di questi nuovi dirigenti (quelli che la stampa sportiva aveva rapidamente soprannominato “Giovani Turchi”), capitanata da Giuseppe Pasquale, si chiuse idealmente la lunga fase di transizione che era stata inaugurata con la ripresa dell’attività dopo la guerra e il calcio entrò in pieno nell’epoca del Miracolo economico.


Anche sul campo si combatteva un’ideale “battaglia di idee” tra conservatori e innovatori. Se si scorre l’albo d’oro di questo periodo, non balza di certo all’occhio una grande varietà tra i vincitori del campionato: Milan (5), Torino (4), Juventus (4), Inter (3), Bologna (1) e Fiorentina (1) sono tutte le squadre prime classificate in Serie A dal 1945 al 1965. Tuttavia, per vedere meglio in cosa consistesse la lotta di idee sul campo occorre non considerare i palmares e focalizzarsi piuttosto sulle innovazioni tattiche. Negli anni ’60 il calcio italiano è quasi diventato sinonimo del catenaccio, insieme modulo e atteggiamento privilegiato dalle squadre della Penisola che mietono successi sui palcoscenici internazionali, pur senza guadagnarsi troppi applausi e simpatia da parte delle avversarie. Ma il percorso per arrivare ad associare l’identità del football italiano al catenaccio è stato lungo e accidentato.

Se le origini di questo modo di stare in campo risalgono al verrou di Rappan nella Svizzera degli anni ’30, i suoi primi passi in Italia si perdono nelle nebbie di guerra. Ad adottare per prime la tattica potrebbe essere state alcune società del nord Italia durante il periodo bellico (Triestina, Vigili del Fuoco La Spezia, Modena), ma a sistematizzare la linea a tre difensori coperti alle spalle dal libero fu Gipo Viani alla Salernitana tra il 1946 e il 1948. Per vedere una squadra di prima fascia giocare (e vincere) con il catenaccio bisognò aspettare l’Inter di Alfredo Foni, campione d’Italia, tra le critiche di buona parte della stampa sportiva, nel 1952-1953.

A riscaldare gli animi era l’attrito tra i fautori del gioco difensivo e del catenaccio e quelli del calcio aperto e del sistema di ispirazione inglese, anche se il dibattito probabilmente divise più la stampa che gli addetti ai lavori. Se infatti è vero che il Grande Torino fu il più riuscito esempio di applicazione del sistema (3-2-2-3) in Italia, fu anche uno dei pochi casi di successo.

Memore delle vittorie della nazionale di Pozzo, buona parte degli allenatori riprese a giocare dopo la guerra adottando il metodo (2-3-2-3), spesso con un atteggiamento molto difensivo. Facevano eccezione pochi come Bernardini, che rimasero sistemisti fino a quando l’evoluzione tattica permise di giocare senza libero alle spalle della linea difensiva, ma in generale nel corso degli anni ’50 gran parte delle squadre virò verso una maggior copertura. Lentamente, ma costantemente, calarono i goal segnati nelle partite di campionato e, a dispetto degli strali dei puristi dalle colonne sportive, le squadre adottarono quasi tutte il catenaccio, almeno per parti di partita.

A sdoganarlo definitivamente contribuirono i successi di alcune provinciali eccellenti come il Padova di Nereo Rocco, che rappresentarono l’occasione per i promotori del gioco difensivo per eleggere i propri santi protettori per lo scontro finale con i sistemisti. Con l’approdo di Rocco al Milan (in coppia con Viani) ed Herrera all’Inter, il catenaccio conquistò Milano, che era diventata la capitale calcistica del Paese. Il resto fu storia ed elemento indelebile nella fama del calcio italiano per i decenni successivi.

Considerando l’aspetto mediatico, il dopoguerra fu il periodo in cui il calcio conquistò la sua posizione di egemonia sulle altre discipline sportive. Alla fine del conflitto, il calcio era già uno sport estremamente popolare, anche sull’onda dei clamorosi successi ottenuti dal Torino. In questo clima, la tragedia di Superga rappresentò probabilmente il primo, grande momento di lutto collettivo condiviso da tutto il Paese dopo le lacerazioni della guerra civile. Tuttavia, il calcio non era la sola disciplina a catalizzare le passioni e gli interessi degli italiani, dovendosi confrontare con altri grandi fenomeni, come il ciclismo che viveva negli stessi anni l’epica rivalità tra Coppi e Bartali.

Fu solo nel corso del decennio successivo che il football conquistò stabilmente l’egemonia in questo campo. Complice il tramonto delle grandi rivalità e l’ingresso in scena di una generazione di atleti complessivamente meno brillante di quella precedente, l’interesse per il ciclismo andò scemando, quasi di pari passo con il declino della bicicletta come mezzo di trasporto a seguito della motorizzazione di massa. Fu il calcio a prendere il posto delle due ruote sulle pagine dei quotidiani, che ne intravidero immediatamente la dote di aumentare le vendite e catalizzare l’attenzione.

Si trattava di un fenomeno di portata europea, che vide le testate sportive come grandi protagoniste non solo dell’immaginario popolare, ma anche come promotrici delle nuove competizioni internazionali, come nel caso de L’Équipe con la nascita della Coppa dei Campioni. Il football stava assumendo il ruolo di fulcro dell’immaginario nella società che si apriva alla nuova fase di industrializzazione e ai consumi di massa, incarnando gli ideali di modernità e benessere a cui sempre più persone potevano aspirare. Il calcio, con la sua patina dorata e con la sua appendice capitalista del calciomercato, era diventato, più di tutti, lo sport che rappresentava i sogni e le speranze della società occidentale.

GLIEROIDELCALCIO.COM (Tommaso Begotti)

 

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Nato a Trecenta (Rovigo) il 25 febbraio 1997, risiede a Ceneselli (Rovigo). Ha conseguito la laurea magistrale in Scienze Storiche e Orientalistiche presso l’Università di Bologna, con la tesi Il Miracolo economico e il Miracolo sportivo. Ferrara e la S.P.A.L. (1950-1968). È socio della Società Italiana di Storia dello Sport e fa parte dell’Editorial Team di “Storia dello Sport. Rivista di studi contemporanei”.

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