La felicità per la Coppa ed attorno il dolore per le radiazioni di Chernobyl: Raffaele Ciccarelli ci racconta la storia della Dinamo Kiev nel 1986.
Dinamo Kiev 1986: Coppa e Radiazioni
Il destino, talvolta, sembra quasi divertirsi a creare dei paradossi, delle antitesi, facendo seguire a momenti di gioia altri di dolore, e viceversa, spesso senza continuità di passaggio.
Capita nella vita di tutti i giorni, e capita anche nello sport, che in essa è immerso.
Questo, in alcuni casi, ingenera quasi la paura di gioire, quando si ha la consapevolezza che poi arriverà qualcosa che inevitabilmente ci rattristerà.

Sembra quasi una legge di compensazione, un equilibrio che non si può spezzare perché alla fine nessuno è mai veramente felice, c’è stato anche chi ha scritto che in realtà i momenti gioiosi non sono altro che attimi nel mare di infelicità cui è condannato l’essere umano.
Una estremizzazione, sicuramente, che porterebbe a una discussione filosofica che non ci compete, ma che parlando di sport trova un suo riscontro.
Basta pensare a quante volte alle vittorie succedono le sconfitte, in un’alternanza che alla fine è anche la base della competizione, altrimenti avremmo degli eterni vincenti e degli eterni perdenti.
A volte, però, può anche capitare che una vittoria si ritrovi immersa in un contesto tragico, la storia che andiamo a raccontare risale al 1986, il mondo è nel pieno della guerra fredda, l’Europa è schiacciata tra le due nuove grandi potenze, uscite vittoriose dal conflitto mondiale, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, il muro di Berlino che divide la Germania non è altro che il prolungamento della cortina di ferro che divide l’Est dall’Ovest, ed è così anche nello sport.
Non che non vi siano contatti, nel calcio, perché le squadre dei due blocchi si affrontano nelle coppe europee, ma in genere tutto quello che riguarda le squadre dell’Est europeo è sempre ammantato di mistero.
Eppure è da lì, in quegli anni, che arriva una novità, quello che viene definito “calcio del 2000” messo in mostra dalla Dinamo Kiev e dalla Nazionale sovietica.
La Dinamo era una squadra dall’indole e dalla costituzione interamente ucraina, ed era già la più titolata del campionato sovietico, la prima a rappresentare l’Urss nelle coppe europee e a vincerne una, la Coppa delle Coppe nella stagione 1973/1974, superando in finale gli ungheresi del Ferencvaros (3-0), vantando tra le sue fila, tra gli altri, Oleg Blochin, che l’anno dopo sarebbe stato eletto Pallone d’Oro, e in panchina Valerij Lobanovskyj.

Questi era già stato giocatore della stessa Dinamo, ricoprendo ruoli offensivi, ma la sua completa realizzazione l’avrebbe avuta da allenatore, anche se i suoi inizi in panchina erano avvenuti al Dnipro, passando poi definitivamente a quella dei bianco blu nel 1973, allenandoli a più riprese, anche quando il club divenne finalmente ucraino, dopo lo scioglimento dell’impero sovietico.
I principi del calcio proposti dal Lobanovskyj, che abbiamo accennato prima, erano sostanzialmente gli stessi del Calcio Totale olandese, basato sulla universalità dei ruoli e la fluidità del gioco su una base molto atletica che probabilmente, rispetto al modello olandese, si avvaleva di una maggiore disciplina, retaggio tipico sia della cultura di quel Paese, sia del fatto che Lobanovskyj era pur sempre un colonnello dell’Armata Rossa.
La proiezione nel futuro della sua concezione calcistica era completata dallo studio meticoloso degli avversari, attraverso una scrupolosa video analisi delle videocassette, e di essere stato uno dei primi tecnici ad avvalersi dell’ausilio del computer per monitorare i suoi giocatori.
Un modello di gestione e di gioco che permise di conquistare numerosi titoli interni con la Dinamo, e di portare in alto anche la nazionale sovietica, trovando il suo massimo fulgore, ma anche il suo tramonto, con il secondo posto agli Europei del 1988, quando si arrese solo in finale proprio all’Olanda (2-0), da cui si era sviluppata quella tipologia di gioco.
Un altro successo importante fu quello che la squadra di Kiev raccolse nel 1986 in Coppa delle Coppe.
Questa era una delle tre competizioni della Uefa che si giocavano all’epoca, e vi partecipavano le squadre che vincevano la coppa nazionale.
La stagione precedente, nell’anno solare, la Dinamo aveva fatto l’accoppiata campionato – coppa, quest’ultima chiamata Kubok SSSR e vinta superando lo Shakhtar Donetsk (1-0).
Il cammino nel torneo internazionale aveva visto i sovietici superare ai sedicesimi gli olandesi dell’Utrecht, agli ottavi i rumeni dell’Universitatea Craiova e ai quarti gli austriaci del Rapid Vienna.
In semifinale vinsero contro i cecoslovacchi del Dukla Praga, vincendo l’andata a Kiev (3-0) e pareggiando al ritorno (1-1), planando direttamente a Lione, dove il 2 maggio allo stadio “de Gerland” ad attenderli trovarono gli spagnoli dell’Atletico Madrid.

Questo si erano qualificati per l’ultimo atto superando, nell’ordine, gli scozzesi del Celtic, i gallesi del Bangor City, gli jugoslavi della Stella Rossa e i tedeschi del Bayer Uerdingen in semifinale, un cammino forse un po’ più complicato dei russi.
La finale, però, ebbe poca storia: il meccanismo messo a punto da Valerij Lobanovskyj sprigionò il massimo della sua forza, dopo cinque minuti la Dinamo era già in vantaggio grazie alla rete di Aleksandr Zavarov, con i Colchoneros in difficoltà a resistere agli attacchi degli avversari.

Una resistenza che pagò solo in termini di passività contenuta e che fu sgretolata nei minuti finali con le reti di Blokin, ancora lui undici anni dopo il primo successo, e di Vadym Jevtushenko per un tre a zero finale mai in discussione.
Era il trionfo del calcio del futuro di Lobanovskyj, che sembrava veramente lanciato verso il Duemila come il calcio di riferimento, ma in Unione Sovietica non si festeggiò, e quella vittoria passò quasi sotto silenzio.

Il mondo era turbato e impaurito da quanto era accaduto non molto lontano da Kiev, esattamente una settimana prima.
Se il calcio della Dinamo apparteneva al futuro, questo era realtà nella moderna città di Pripjat, a pochi chilometri da Chernobyl, che ospitava i lavoratori della centrale nucleare che lì operava, una vera “atomgrad”.

Una cittadina tranquilla, in cui la vita sembrava scorrere con serenità, tutto drammaticamente oscurato nella notte del 26 aprile, quando il reattore quattro della centrale nucleare esplose.
Pripjat divenne una città fantasma, le conseguenze della nube radioattiva sprigionatasi dall’esplosione tennero in apprensione quasi tutta l’Europa.
In una sola notte l’umanità visse il suo peggior incubo, il tempo a Pripjat si è fermato, se si potesse visitare oggi quella cittadina si troverebbero, con i segni del tempo ma ancora lì, cinema, teatri, case, quel che rimane dello stadio.

Perché anche lì c’era una squadra di calcio, l’FC Stroitel Pripjat era composta quasi tutta dai giovani operai che lavoravano nella centrale, ma che, avendo cominciato a vincere, aveva convinto le autorità locali a progettare uno stadio che, per colmo d’ironia, si sarebbe dovuto chiamare “Avanhard”, e si sarebbe dovuto inaugurare il primo maggio di quel 1986, ma non avvenne mai.
Tutto spazzato via, tutto atomizzato.
Probabilmente al momento del trionfo della Dinamo Kiev a Lione non si aveva ancora la percezione del disastro, la sua portata, che avrebbe rappresentato una catastrofe ambientale e sanitaria che ha segnato la fine del ventesimo secolo, e contribuito alla fine dell’impero sovietico.
Come scritto in apertura, dolori e gioie, che fanno da contrappunto all’esistenza stessa dell’uomo, in un’alternanza infinita.

GLIEROIDELCALCIO.COM (Raffaele Ciccarelli)
