Le Penne della S.I.S.S.
ESCLUSIVO – Intervista a Natalina Ceraso Levati: gomme bucate e catini d’acqua per il calcio femminile
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2 anni agoon
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Marco GianiIl numeroso pubblico che alla vigilia dell’esordio delle azzurre all’Europeo ha visto lo speciale «Azzurro Shocking. Come le donne si sono riprese il calcio» prodotto dalla RAI ha avuto modo di sentire i racconti non solo di grandi calciatrici del passato quali Betty Vignotto e Patrizia Panico, ma pure della dirigente monzese Natalino Ceraso Levati: una scelta, importante, quella della regista Azzurra Di Tomassi, con la quale ha mostrato a telespettatori e telespettatrici che il mondo delle squadre femminili non è sempre stato in mani maschili.
Avevamo in realtà raggiunto l’ex presidente del Fiammamonza il 23 giugno 2022, giusto qualche metro sotto la storica tribuna dello Stadio Sada di Monza da cui parla in «Azzurro shocking», in un ufficio pieno di coppe e fotografie, alla presenza tendenzialmente silenziosa ma attenta a puntualizzare dell’attuale direttore generale del Fiammamonza Gaetano Galbiati. Della lunghissima chiacchierata durata un’ora e mezza selezioniamo per i lettori e le lettrici de Gli Eroi del Calcio quei passaggi che più permettono di apprezzare le enormi differenze fra il movimento calcistico femminile italiano delle origini e quello attuale, di cui le azzurre guidate da Milena Bertolini nella loro avventura in terra inglese sono l’ultimo epifenomeno.
Natalina Ceraso è nata a Monza nel 1944, figlia di Nazzareno “Reno” Ceraso (Gerocarne, 1915 -Monza, 2007) e della monzese Iride Cazzaniga, laureati in Lettere, entrambi insegnanti di Educazione Fisica e giudici FIDAL. Nel 1970, grazie all’incontro con l’avvocato monzese Fabrizio Levati (1945-1995), Reno Ceraso decise di fondare la Fiammamonza, di cui la figlia Natalina, in un primo momento segretaria, divenne nel 1979 Presidente, mentre il marito Fabrizio Levati si occupò fino alla morte della panchina del club. Nel 1997 i club femminili d’Italia elessero Natalina Ceraso Levati a capo della Divisione Calcio Femminile della Lega Nazionale Dilettanti; carica che la dirigente monzese mantenne fino al 2009.
La squadra di calcio nacque nel 1970 all’interno di una polisportiva che i suoi genitori avevano già avviato da qualche anno …
“Sì, e fra l’altro si chiamava col cognome di mio padre: «Fiamma Ceraso», non era ancora «Fiamma Monza». Si trattava di una polisportiva di atletica, mini-basket, pallavolo: solo al femminile. E io, quando ho cominciato a collaborare con mio padre, facevo la segretaria di questa polisportiva.”
Ma lei non gareggiava?
“No, mai, non ho mai fatto sport, perché, essendo la prima di cinque, il mio tempo libero lo occupavo a fare la baby-sitter: la mamma ha sempre lavorato come insegnante, il papà insegnava il mattino, il pomeriggio aveva o la polisportiva o andava al Mamma Rita, un ente che si dedica alle famiglie difficili, ai bambini che vengono tolti alle famiglie: lui andava a fare volontariato lì, ed era un ente anche quello tutto femminile, ai tempi. Io dunque facevo la segretaria, e quando ormai avevo 26 anni, nel 1970, arriva in palestra un avvocato, un ragazzo giovane, accompagnato da un amico di famiglia, e dice a mio padre: «Professore, ascolti, ma perché, visto che c’è tutto al femminile, non facciamo la squadra di calcio femminile?». Questo ragazzo … sarebbe poi diventato mio marito [ride]! Per quanto mi riguardava, il calcio mi piaceva, lo sport mi è sempre piaciuto, però l’idea di avere ancora da fare altro lavoro – perché poi, la segretaria non era facile da fare, bisognava tenere tutta la contabilità, tutte le iscrizioni, andare a Milano a fare i pagamenti … ho alzato gli occhi e ho detto: «No, no: il calcio è solo maschile», e lui mi ha detto: «Tu stai zitta, che non sto parlando con te!”
Suo papà a lei?
“No, no, mio papà non me l’avrebbe mai detto: è stato il giovanotto! E poi io, per vendetta … l’ho sposato! L’avvocato Levati aveva conosciuto all’università la figlia della signora Rocchi, la Patrizia, ed era andato per un certo periodo anche a fare il vice-allenatore del Gomma Gomma, interrompendo poi i suoi rapporti con la famiglia Rocchi. Aveva giocato, per altro, nel Pergocrema, in Serie D maschile; quindi, essendosi innamorato del calcio femminile, era venuto al Fiamma Ceraso a cercare qualcuno.”
Quali furono le difficoltà dei primi tempi?
“Prima di tutto, non era facile reclutare le prime adepte: fino a metà anni Ottanta, di giocatrici monzesi … quasi nulla, si contano sulle dita di una mano! Era tutta la Brianza, era tutto l’hinterland che veniva a giocare a calcio, le monzesi erano snob, non facevano calcio. Allora il mio papà, che andava a fare volontariato in questa struttura che si chiama Mamma Rita – esiste ancora, ed accoglie i bambini che vengono tolti alle famiglie, è una casa famiglia, adesso, allora era un collegio retto da suore, da religiose -, ha parlato con la superiora, anche per dare un’alternativa a queste ragazze, e allora arrivarono in fila, con una suora davanti ed una suora dietro, una ventina di ragazzine, che venivano a giocare a pallone. Questo è stato il primo nucleo, da cui è nata la Fiamma Ceraso: poi dopo c’è stata una svolta anche dal punto di vista tecnico, nel senso che le giocatrici arrivavano e sapevano già cosa era il pallone, mentre le prime – io mi ricordo ! – arrivavano e bisognava dir loro: «Guarda, questo è il pallone», metterglielo fra i piedi, e dire loro: «Questa è la riga, prova ad andare diritta con il pallone» … La svolta è arrivata quando gli oratori sono diventati misti, attorno a metà anni Ottanta: così le ragazze arrivavano che sapevano già cosa erano i pali, cos’era l’area di rigore … Ciò ha portato anche ad un abbassamento netto dell’età, perché invece le primissime avevano tutte attorno ai 20 anni.“
Un’altra difficoltà?
“Non c’era nessuna struttura per allenarsi: se c’è carenza oggi, si immagini nel 1970! I primi mesi, in inverno, dato che papà aveva già in dotazione una palestra (la polisportiva esisteva già dal 1960, aveva 10 anni di attività), gli allenamenti si facevamo in palestra, a Cederna; poi pian pianino, quando veniva la bella stagione, andavamo in un campetto alla Taccona (che è un’altra zona di Monza), che non era un campetto, era un prato. La famiglia di due ragazze, le sorelle Tagliabue, aveva una villetta, e davanti alla loro villetta c’era questo prato, incolto: allora, il papà delle sorelle gentilmente ci tagliava l’erba, andavamo in quel prato lì a fare gli allenamenti, le ragazze si lavavano, e poi si cambiavano nel box di questa famiglia, e poi ognuna andava a casa sua a farsi la doccia, si lavavano, si asciugavano …“
E come facevate, con le porte?
Ma nessuna porta! Le borse, le borse facevano da porta! Quando poi ci siamo iscritti al campionato, si è posto il problema: allora, pensi che siamo andati a giocare a Milano al campo Dindelli, ci hanno dato il campo per fare il campionato, poi pian pianino il Comune di Monza – perché papà era ben voluto, ben conosciuto, moltissimo, ha fatto l’insegnante al Mosè Bianchi per 43 anni, era al corso Geometri di Monza … -, ci ha dato il campo Ambrosini, che allora era il campo della ditta Singer, e lì ci allenavamo, giocavamo lì. Poi, quando il Calcio Monza ha costruito il Brianteo, per due anni siamo stati in concomitanza con il Calcio Monza, gli ultimi due anni che è stato qua allo Stadio Sada, noi ci allenavamo sempre all’Ambrosini, ma giocavamo qua; poi, quando il Calcio Monza se n’è andato, nel 1987, l’Assessore allo Sport Ironico ci ha chiamato, dicendoci «Se lo volete …». Le dirò, senza retorica: ce l’ha dato perché costava, che costa tuttora molto mantenerlo, perché è obsoleto sotto tutti gli aspetti. Abbiamo rifatto tutto, per esempio queste strutture qui [indica l’ufficio dove si sta svolgendo l’intervista], perché continuavano a rubare materiale, le porte tutte in ferro che abbiamo rifatto, abbiamo cambiato la caldaia, ci è costato … forse, col senno di poi, lo stadio potevamo costruircelo ex novo! Però decidere di giocare qui era anche una questione di prestigio, perché nel cuore dei monzesi questo è il campo del Monza: è qui ad esempio che gli ultras hanno festeggiato poco fa la promozione in Serie A. Però tutte queste cose erano giustificate perché era una questione di prestigio enorme, noi siamo stati la prima squadra femminile in Italia ad aver avuto uno stadio – questo è uno stadio! – dove allenarsi e giocare. Infatti tutte le big come la Torres o la Lazio – che vincevano gli scudetti, per carità, senza nulla togliere loro!-, quando venivano qua ci dicevano: «Certo che però, avere una casa … !». Era una cosa fondamentale. Quindi, è stata una scelta proprio mia e di mio marito, quella di investire sull’avere una casa – perché avevamo tutto, qua: gli spogliatoi, il magazzino, la lavanderia, tutto! -, piuttosto che spendere – ben spesi, quei soldi, per chi l’ha fatto! – per ingaggiare le big per vincere gli scudetti … tanto poi lo scudetto è stato vinto lo stesso, nel 2005/2006!
Mi raccontava che lei, in qualità di segretaria, fino al 1979 (quando è passata poi alla Presidenza) faceva i colloqui alle calciatrici che volevano iscriversi. C’è un episodio in particolare che le è rimasto in mente?
Ho ancora un ricordo terribile, quello della volta in cui ho chiesto «Come mai ti sei interessata al pallone?», e una ragazza di Seregno, seduta, aveva 24 anni, che mi dice tranquillamente: «Finalmente è morto mio padre, la settimana scorsa» – perché suo padre non le dava il permesso: a 23 anni questa non poteva … ! «Finalmente è morto mio padre, settimana scorsa»! Le dirò che io sono rimasta con la penna, così, e le ho detto: «“Finalmente” non puoi dirlo: va bene per “è morto mio padre, ora sono riuscita a venire” …». Una sera, riaccompagnando questa stessa ragazza … Siccome la madre aveva ereditato il “no” del marito, come io ho aperto la portiera per farla scendere dalla macchina, mi ha rovesciato addosso un catino d’acqua! Quindi, guardi [ride] … Ma ricordo anche Mariangela Bonanomi, la prima giocatrice forte che abbiamo avuto al Fiammamonza: io e mio marito, che eravamo già sposati (sarà stato il 1973, o il 1974), siamo andati a cercarla nel paesino brianzolo dove abitava, Regondino. Era orfana di mamma, e aveva 16 anni. Eravamo andati per parlare con il papà, e il papà ha preso il forcone, e se non scappavamo, ci inforcava! Mio marito aveva una macchina sportiva, quella inglese con la ruota di scorta dietro, e gli ha bucato la gomma! E quella ragazza, le botte che ha preso perché veniva a giocare a pallone, non le dico … Ecco, questi sono stati gli inizi.
Spesso quindi l’opposizione al calcio femminile proveniva dai genitori delle ragazze, le quali invece desideravano giocare …
Le madri, più che i padri: i padri negli anni Settanta o erano assenti o erano neutrali: in ogni caso, nessuno di loro si è mai preso la briga di accompagnarle, di portarle, di venirle a prendere … erano rarissimi, quelli che lo facevano. Sa piuttosto chi lo faceva? I fratelli delle mamme, gli zii materni. Oppure il primo fidanzatino: perché molte di queste ragazze degli anni Settanta ufficialmente andavano al cinema col moroso, mentre invece venivano qua a giocare, e il moroso portava a casa la borsa di calcio, e la faceva lavare dalla sua mamma. Per esempio la Mazzoleni, che è stata una nostra bomber meravigliosa … la portava lui, la faceva giocare, si portava a casa la borsa, la mamma di lui la lavava, e lui la riaccompagnava agli allenamenti: ufficialmente, lei andava con il moroso! Allora, che uscisse col moroso, andava benissimo, che tornasse a mezzanotte col moroso, perfetto, ma il padre non voleva che giocasse a pallone!
Che tipo di argomentazioni usavano, le madri, per opporsi al desiderio delle figlie di giocare a pallone?
“La prima domanda della madri era: «Ma le gambe? Come diventano giocando a pallone?». Poi, quando incominciavano ad essere già un po’ grandicelle, a 17, 18 anni, donne formate: «Se prendono un colpo al seno? Che traumi hanno?». Poi: «Preclude la maternità, il calcio?». E poi, la domanda classica: «Diventano lesbiche?». Queste erano le preoccupazioni – giuste o sbagliate che fossero – delle madri. I padri no: ripeto, o erano assenti, oppure … ecco, quelli che non avevano un figlio maschio erano i più interessati alla carriera, all’exploit, alla prestazione della figlia. Una cosa che io, prima da segretaria e poi da presidente, ho sempre cercato di far capire alle ragazzine era il fatto che venire a giocare a pallone non doveva per forza portarle alla scelta di tagliare i capelli: perché la prima cosa che facevano, quando venivano a giocare a pallone, era tagliarsi i capelli! Allora, prima di tutto era questione di comodità, perché lei capisce che fare la doccia due volte alla settimana, giocare, fare tardi la sera …
Però c’era in ballo anche una questione di status mentale, negli anni Settanta, Ottanta. E qual’è stata la svolta per l’Italia? Glielo dirò: l’incontro, la conoscenza, negli anni Novanta, con le atlete dei college USA, quando sono incominciati gli scambi con questo paese dove si era diffuso il calcio femminile nei college per questione di parità . Perché le ragazzine americane, e quelle dei Mondiali del 1999 che hanno vinto con Mia Hamm , avevano tutte la coda di cavallo! Bionde, tutte – tutte! – … e soprattutto avevano la vera matrimoniale. Ha in mente quelle che hanno poi hanno vinto il Mondiale, con Mia Hamm, a Pasadena? Hanno fatto la rivoluzione: non sarebbero scese in campo, perché gli volevano far togliere la vera, han giocato con la vera: io ero là, come Presidente della Divisione Femminile, hanno fatto la riunione …
Non solo: erano in ritiro, quelle sposate, con marito e figli: sono andate in ritiro per due mesi, per prepararsi – perché fra l’altro loro, non avendo il campionato, perché sa che in America c’erano i college, non il campionato … -, ecco, loro sono andate in ritiro con marito e figli, chi ha voluto; secondariamente, sa che bisogna togliere gli orecchini, per giocare, perché è giusto, perché possono farti uno sfregio … allora loro hanno tolto tutto, meno la vera. Allora, hanno giocato con la vera, e poi erano tutte con la coda di cavallo: e da lì, anche le nostre … le nostre adesso le vede anche lei, sono carine, sono femminili, ma una volta invece era proprio che arrivavano e … non so, era quasi una rivendicazione sociale: mostrare di essere come gli uomini, mentre una mia guerra personale era quella di dir loro: «Ma non dovete dimostrare niente: voi avete delle peculiarità, diverse, e avete anche delle difficoltà maggiori» – le ginocchia delle donne, ad esempio, hanno avuto sempre dei problemi (certo, probabilmente anche perché non erano curate come quelle degli uomini, sin da bambini …). E poi, anche la questione del reggiseno: ci sono dei reggiseno apposta, che comprimono un attimo ma che … senza bisogno di essere volgari, io chiedevo loro: «Scusate, ma la parte bassa degli uomini non ha lo stesso problema? Giusto?». Ma le mamme erano così! Le mamme, e poi anche le ragazzine … Però le dirò che pian pianino, venendo a contatto soprattutto con le altre Federazioni, dove mantenevano la loro femminilità, ecco …”
GLIEROIDELCALCIO.COM (Marco Giani)
Si ringraziano Natalina Ceraso Levati e Gaetano Galbiati non solo per l’intervista, ma anche per la condivisione delle immagini, tratte dal ricco archivio fotografico della società Fiammamonza.
Per migliorare la leggibilità, alcuni punti dell’intervista sono stati modificati. Per leggere la versione integrale dell’intervista, corredata anche da alcune note storiche utili a capire meglio il contesto:
https://www.academia.edu/82241869/Intervista_a_Natalina_Ceraso_Levati_23_06_2022_
Nato a Gallarate (VA) nel 1984, è docente di Storia e Geografia in una scuola milanese. Addottorato in Ca’ Foscari in Storia della Lingua Italiana, da anni si è dedicato alla storia dello sport femminile durante il Ventennio fascista, provando ad indagare sia le questioni di genere sia il tema della rappresentazione linguistica ed iconografica della donna sportiva in tale contesto fortemente maschilista: il suo lavoro principale è stata la ricostruzione della vicenda storica del Gruppo Femminile Calcistico di Milano (1933), prima squadra di calcio femminile del nostro paese, alla base poi del romanzo di Federica Seneghini “Giovinette” (Solferino, 2020). Studiando il passato del calcio femminile, è approdato al suo presente, cui ha dedicato “Capitane coraggiose. Sara Gama e Megan Rapinoe, due leader a confronto” (Ultra Sport, 2023). È membro della Società Italiana di Storia dello Sport (SISS). Per GliEroidelCalcio in convenzione S.I.S.S.
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