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Hamrin era jucatore, per lui Ferlaino inventò il contratto a gettone

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ILNAPOLISTA.IT (Davide Morgera) – Potrebbe essere un mistero ancora oggi ma forse non lo è. Come abbia fatto Kurt Hamrin, che ha collezionato solo 22 presenze e 3 reti nel Napoli in due anni di militanza partenopea, a lasciare un segno così forte tra i tifosi e nella memoria di chi lo ha visto giocare è, in effetti, qualcosa che fa riflettere al cospetto di un calcio, quello odierno, che fagocita giocatori, contratti, sputtanamenti ed amori con la velocità di Bolt. Dunque, Hamrin beniamino di 50 anni fa ma ancora nel cuore dei tifosi oggi.

Sarà perché era un giocatore la cui classe era conclamata, un reuccio in Svezia, la sua patria, un protagonista dei Mondiali del 1958 con la sua nazionale. Sarà per i suoi calzettoni perennemente abbassati che potevano ricordare il rimpianto Sivori per l’estetica. Sarà perché il suo nome, Kurt, in napoletano si prestava ad una sola interpretazione, era davvero basso (1,69 cm.), ma che tecnica e che palleggio! Sarà perché le generazioni ci hanno raccontato “Hamrin? Era jucatore!”, che a Napoli significa “ti puoi fidare, sa giocare a calcio”. Sarà per la simpatia che suscitò il suo contratto a gettoni in cui prendeva un milione di lire a partita.

Sarà perché, con Altafini e Sormani, formava un trio di giocatori che sommando l’età arrivava a 100 anni tondi. Si sa, i vecchietti ispirano sempre simpatia, soprattutto se di classe sopraffina come lui. Sarà che, quando toccava la palla e si muoveva con agilità tra i difensori avversari, sembrava davvero un volatile svolazzante, uno spirito dell’aria. Ecco il perché del nomignolo “uccellino”, derivante anche dalla statura e dal peso (69 kg.), che si porterà dietro per tutta la vita. Sarà che, dopo aver giocato in quattro squadre italiane, decise di concludere la sua carriera proprio a Napoli prima di un fugace ed inutile ritorno in patria, all’IFK Stoccolma. Sarà per il suo aspetto fisico che ispirava saggezza, i suoi 35 anni si stampavano su un viso, l’essere stempiato, che lo faceva apparire molto più anziano di quello che in realtà era, un vero nonnino sprint. Sarà perché quando arrivò a Napoli aveva già segnato una quantità industriale di gol in Serie A, 190 per la precisione, una garanzia assoluta, un marchio di fabbrica inequivocabile. Sarà tutto questo messo insieme a fare di Kurt Hamrin, ancora oggi, un piccolo mito tra i supporter azzurri.

La Juventus lo sbolognò subito

La sua carriera è stata un romanzo scritto su un prato verde. A 17 anni è già professionista, in patria, con l’AIK, dove si mette in luce con una media di quasi un gol a partita. Due anni più tardi finisce nelle grinfie della Juventus che lo utilizza a mezzo servizio e a fine anno pensa di aver preso un abbaglio. I bianconeri sono già pieni di attaccanti di primissimo livello, da Boniperti a Stacchini. Hamrin viene, quindi, trattato alla stregua di un giocatorino e spedito in provincia, al Padova, proprio nel campionato che terminerà con i Mondiali di Svezia del 1958. Coi patavini Kurt fa un campionato monstre, si mette in luce realizzando 20 gol in 30 partite nella squadra di Rocco, che ritroverà dieci anni dopo al Milan, ed arriva carico a mille per il Campionato Mondiale in patria.

La Svezia arriva seconda, lui segna in quattro occasioni, tra cui la gara di semifinale contro la Germania, e i gialloblù si inchinano solo al Brasile di Didì, Vavà e Pelè in finale. Dopo la vetrina mondiale la sua carriera arriva ad una svolta, la Fiorentina lo corteggia e lo prende nel pieno di un’esplosione tecnica e disciplinare. Ha solo 24 anni. Sarà un idolo nella città di Dante dove rimarrà per 10 anni consecutivi e dove metterà a segno la bellezza di 151 reti in 289 partite. Crediamo, senza ombra di smentita, che tra le squadre italiane in cui ha giocato, la Viola gli sia rimasta nel sangue e in qualche simpatico filmato, girato recentemente in rete, lo abbiamo visto addirittura discernere di vini toscani in un’osteria. Anche il suo italiano, nonostante l’accento nord europeo, sembra di gran lunga migliore di tanti giocatori che hanno messo radici in Italia. Liedholm, suo compagno in nazionale, ad esempio, continuò a storpiare le nostre parole fino a farle diventare divertenti.

Il Milan e poi il Napoli di Ferlaino

Al Milan, dopo un ciclo considerato finito con la squadra che poi vinse lo scudetto con Pesaola e i giovani ye ye, Hamrin arriva nell’estate del 1967 e ci rimane per due anni, con 36 presenze e 9 reti. La sua carriera non è in declino, Kurt ha semplicemente cambiato il suo modo di giocare, da punta esterna, da ala sgusciante, che “uccella” l’avversario con finte e dribbling, tutto corse, piroette e guizzi, è passato a fare l’uomo di raccordo, colui che serve le punte invece di essere servito. I rossoneri davanti hanno due giocatori che la mettono sempre dentro, in qualsiasi modo li servi. Prati e Sormani sono una macchina da guerra e a fine campionato il Milan mette a segno 53 gol in 30 partite, un’enormità per quei tempi.

Dopo lo scudetto al primo anno coi rossoneri, Kurt viene confermato e diventa il classico giocatore che può dare l’esperienza necessaria ai giovani (dietro di lui ci sono Rognoni e Petrini) e giocare intere gare quando la battaglia necessita di scaltrezza e saggezza. Dopo il biennio milanista a lui pensa il Napoli, nel primo anno di Don Corrado Ferlaino presidente. Soldi non se ne vedono nonostante la società abbia preso 480 milioni dalla cessione di Claudio Sala al Torino. Bisogna risanare il bilancio, è questa la parola d’ordine che gira nelle riunioni tra il nuovo presidente ed i vecchi soci. Ed allora la società si fionda su giovani come Canzi, Manservisi e Monticolo e sull’usato sicuro, arrivato come svincolato a chiusura di mercato, come Hamrin che, nonostante la sua non giovane età, sembra poter dare ancora qualcosa.

È Chiappella a farne il nome, a volerlo, poiché ci ha giocato insieme ai tempi della Viola. Il vecchio spirito vichingo non è morto, l’uccellino vuole svolazzare anche nel cielo di Partenope. Ma Ferlaino, che era furbo già nella pancia della madre, che cosa si inventa? Ma naturalmente un contratto a gettone. Tante presenze, tanti soldi (un milione tondo a partita). Il primo anno Hamrin, anche per acciacchi non dipendenti da una presunta vecchiaia, gioca solo 5 partite e mette a segno una rete, quella col Verona in casa. Va meglio il secondo anno in cui, superati i problemi fisici, gioca ben 17 gare con due reti, una nella vittoria interna col Catania ed un’altra nel 2 a 2 nel derby con la Roma all’Olimpico.

Nel suo primo e sfortunato anno il Napoli finisce sesto, a distanza siderale dai campioni di Italia del Cagliari mentre nella sua seconda stagione contribuisce all’ottimo terzo posto degli azzurri, dietro le milanesi, con l’Inter campione. Finì quell’anno, in un fine maggio del 1971 a Catania (sconfitta per 1 a 0), la sua avventura nel Napoli. Chiappella gli diede l’onore della passerella in una squadra tutta votata all’attacco con un quintetto formato dallo svedese, Juliano, Altafini, Ghio ed Improta. Al rompete le righe, il “bye bye” di Hamrin, ciao Napoli, è stato bello giocare con e per te. Sì, forse è un luogo comune, chissà. Ma per i tifosi, che non hanno mai dimenticato di aver visto giocare e volare un “uccellino” nel cielo di Fuorigrotta, è stato davvero bello.

Quel Milan-Napoli

Ebbene, prima dell’arrivo a Napoli, Hamrin ne ha giocate di sfide importanti e decisive contro gli azzurri. Per un professionista è normale dare tutto in certe partite, dell’oggi sappiamo tutto, del domani non c’è certezza. Gli echi del poeta riecheggiano ancora. Capitò anche quell’anno, il 1967-68, quello di un secondo storico posto del Napoli alle spalle del Milan. Alla fine il campionato terminò con un meno nove degli uomini di Pesaola al cospetto dell’armata solida degli atleti condotti dal “Paron” Nereo Rocco. Nove, come allo stato attuale delle cose. Nove, una maledizione, ieri ed oggi, Juve e Milan fa lo stesso.

Hamrin aveva già incontrato il Napoli quando giocava con la Juve (una rete decisiva), il Padova (segnando una rete) e la Fiorentina (una tripletta, una doppietta ed altri quattro gol in altrettante partite) ma domenica 4 febbraio 1968 contribuì alla vittoria del Milan con una delle sue prestazioni super. Neve ai bordi del campo, San Siro è gelido più che mai, molte zone del campo sono ammantate di bianco, con la nebbia che incombe ma che fortunatamente non metterà la partita in pericolo sospensione.

Il Milan è forte, inutile divertirsi col gioco della parzialità. Cudicini è un portiere rigenerato, para tutto e si merita il soprannome di “Ragno nero” per i suoi completi da gioco, i terzini si chiamano Anquilletti, che guarda l’ala avversaria, e Scala che invece, copiando Facchetti, fa già il fluidificante e spinge a sinistra. La coppia dei centrali è formata da Malatrasi e Baveni (che sostituisce il tedesco Schnellinger), due giocatori a cui mister Rocco insegna l’arte del “prima non prenderle” che aveva portato il suo Padova “italiano” agli onori della cronaca, ad essere una delle provinciali più sorprendenti dell’intero calcio italiano. A centrocampo Trapattoni è un cane da presa, uno che non lascia giocare il regista avversario, Lodetti ruba i palloni e li mette sui piedi di sua maestà Rivera e quest’ultimo inventa. Come un mago col cilindro. In attacco Sormani ha classe da vendere mentre Prati è nato per segnare, sente la porta e la vede quasi sempre.

La gara. Dopo attacchi insistenti dei padroni di casa è Rivera a sbloccarla, dopo un’imbeccata di Sormani. Zoff non può nulla sul tiro, all’altezza del disco del rigore, del capitano rossonero. Il Napoli prova a controbattere e con Juliano sfiora il pareggio in un paio di occasioni. Ci pensa, poi, Canè, schierato con un inedito 10, a trovare un preciso traversone che Barison di testa manda in rete. Il punto sarebbe anche meritato dal Napoli ma il Milan, come le squadre che vogliono raggiungere l’obiettivo a tutti i costi, spinge sull’acceleratore e con Prati, in mischia, con una leggera deviazione di Nardin, trova il gol del vantaggio. Finirà così, con gli onori e gli elogi della critica al Napoli ma con i due punti al Milan. Del resto, quei nove punti di distacco gridano ancora oggi vendetta.

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