Libri: "Difendendo da giganti" - Paolo Cesare Maldini-
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Libri: “Difendendo da giganti” – Paolo Cesare Maldini-

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Per la rubrica “Libri” abbiamo raggiunto ed intervistato Gianluigi D’Ambrosio  autore del libro “Difendendo da giganti” “le storie dei grandi difensori che hanno segnato diverse ere”, edito da Urbone Publishing.

Per noi un consueto e piacevole triplo appuntamento: dopo l’intervista di sabato scorso,oggi il primo dei due estratti.

Buona Lettura.

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“Per essere grandi campioni bisogna essere coerenti, anche fuori dal campo e non basta il talento. Uno che non salta mai l’allenamento, che arriva sempre puntuale, che fa il suo lavoro e che rispetta ogni regola. Per questo Maldini è stato il più forte al mondo, perché era sempre sul pezzo”. (Gennaro Gattuso)

Il fascino della biologia in grado di spiegare molti perché, senza il bisogno di analizzare il DNA umano, attraverso lo sguardo e un solo pensiero.

La storia tra le file rossonere scritta da un padre di nome Cesare, colui che cominciò ad osservare le movenze di un bimbo di soli sei anni, ogni giorno in oratorio a divertirsi con il suo amico pallone.

Le linee orizzontali di un sorriso sul volto di un padre fiero, le prime scarpe per il primissimo provino, quando fu il momento di varcare i cancelli rossoneri fino ad un incontrare un allenatore di nome Fausto Braga.

Senza nessuna raccomandazione, poiché il campo cominciò ad illuminarsi sotto di esso, e quando gli chiesero quale fosse la sua squadra di provenienza, egli rispose: “Oratorio”.

Come dinanzi ad una scoperta epocale da trascrivere sui libri, un altro Maldini con una grande responsabilità, con la giusta dose di fascino per costruire il suo futuro.

Le parole tentavano di ferire l’ultimo arrivato, ma Fabio Capello, allenatore della primavera milanista, decise di lanciarlo riponendo tanta fiducia in quel ragazzo che, per tanti, era “il figlio di Cesare”.

Un’etichetta appesa al collo che suonava come una raccomandazione, spazzata via dalla bravura che funse da collante, per la vittoria della Coppa Italia primavera.

Era i primi sprazzi di talento notati anche dall’allenatore della prima squadra, e proprio quel Nils Liedholm, costretto a fare i conti con una squadra piena di assenze, decise di mettergli tra le mani la casacca numero 14.

In partenza verso Udine il 20 gennaio 1985, passato in pochissimo tempo dalle giovanili all’esordio in massima serie, accanto a Baresi, Di Bartolomei e Russo, nel ruolo di terzino destro occupato con una scioltezza da veterano.

L’anno successivo cominciò ad apprendere il mestiere da Franco Baresi, in posizione di centrale mancino, per poi pian piano affermarsi sulla corsia di sinistra da terzino, nonostante fosse un destro naturale.

La prima gioia quando gonfiò la rete, seguita da una telefonata inevitabile proveniente dal ramo familiare, perché il padre Cesare lo volle convocare nella nazionale under 21.

Senza avere paura di quei pregiudizi già sepolti da tempo, consapevole dei propri mezzi e disposto a cucire nuove bocche, mostrando l’identità di un vero “Maldini”.

Equilibrio, tecnica, mente e la certezza nella linea difensiva, a primo impatto non convinsero del tutto il nuovo nome sulla panchina rossonera, poiché Berlusconi decise che era giunto il momento di regalare un’aria nuova ai polmoni.

Arrigo Sacchi come un martello negli allenamenti, a colloquio con Maldini con la pretesa di giocare ancora meglio, e nonostante le difficoltà iniziali, riuscirono insieme a gioire.

Lo Scudetto soffiato al Napoli di Re Diego Armando, una Supercoppa Italia con un tris alla Doria, con lo sguardo oltre i confini per tornare protagonisti.

Iniziarono a correre spediti verso Barcellona, stringendo la mano ad un altro olandese di nome Rijkaard accolto in squadra, mentre “Paolino” scacciava sempre di più la famosa etichetta.

Faceva parte di una squadra brillante, di un gruppo di “Immortali” in grado di dominare in Europa, contro la Steaua Bucarest e il Benfica, riportando a casa due Coppe dei Campioni.

Nonostante le delusioni per un autogol e un brutto infortunio alla clavicola, da vero campione seppe rimettersi sui binari giusti, quando alla “stazione successiva” si imbatté nell’uomo che lo lanciò nella primavera: “Fabio Capello”.

Cicli nuovi con la giusta fame, in Italia e in Europa con tante gioie, fino ad un battezzo definitivo nella città di Atene, accanto a Filippo Galli in una finale di Coppa dei Campioni storica.

Davanti a lui la macchina blaugrana dell’allenatore Johan Cruijff, ma nonostante le assenze di Baresi e Costacurta, riuscì a resistere a qualsiasi attacco, per un 4 a 0 finale indelebile nei ricordi di ogni tifoso rossonero.

Era senza dubbio il migliore al mondo nel suo ruolo, quando giunse a due passi dal pallone d’oro di France Football, senza mai sentirsi appagato per nessuna ragione.

Scorreva però l’acqua di diverse delusioni, con ritorni in panchina e poche tracce di vittoria, insieme a tante umiliazioni che quel glorioso club non meritava.

Troppi litigi, quasi alle mani con Capello nel suo ultimo anno, prima di rinascere pian piano dopo l’addio di Franco Baresi, con una responsabilità gigantesca da portare avanti da vero campione affermato.

L’Inno di Mameli ad “Euro ’88”, con la maglia azzurra ed un’altra etichetta da scacciare via subito, ossia quella di “erede di Cabrini”.

La Spagna sul cammino della formazione azzurri di Vicini, annullata letteralmente da ottime letture difensive, se solo penso alla marcatura asfissiante che mise in scena sul fantasista Michel.

Il rapporto con l’azzurro alternando gioie e dolori, senza mai riuscire a sollevare un Mondiale ed un Europeo, più forte di ogni critica proveniente dalla sala stampa dopo l’ultima apparizione internazionale contro la Corea.

Disse addio alla maglia azzurra per sempre, concentrando le forze solo per il club rossonero, tornando a gioire con un sesto scudetto insieme ad Alberto Zaccheroni.

Un ultimo nome per nuovi soffi sull’Europa, Carlo Ancelotti e i suoi concetti che condussero il Milan a Manchester contro la Vecchia Signora, proprio il giorno da ricordare per sempre, poiché da capitano sollevò la Champions League tra i festoni rossoneri.

Dopo soli 51,20 secondi riuscì a sbloccare il risultato contro i Reds di Liverpool, mettendo a referto il gol più veloce di una finale, e il gol del più anziano, ma nonostante il tris del primo tempo…

La rimonta e una sconfitta che spaccò il cuore in due, con il capo basso discese agli inferi nella notte di Istanbul, con la personalità che prese per mano i suoi compagni feriti, formulando una promessa da mantenere a tutti i costi.

La vendetta proprio contro i Reds, dopo due anni ad Atene, in veste bianca sollevò la sua quinta gioia Europea, scacciando via con mestiere i paurosi fantasmi di Liverpool.

L’addio in un’atmosfera magica, macchiata da una porzione di contestatori sulle tribune, durante il tripudio nel classico giro d’onore, per un attimo fermo e incredulo, indicando a tutto lo stadio quel gesto di pura irriconoscenza.

Uno striscione e un’espressione che cambiava pian piano, uscendo di scena in un’atmosfera rovinata da una minoranza.
Una casella mancante quella azzurra sì, il lato crudele del calcio in fondo, ma successi, gioie, sconfitte e dolori, insieme ad un senso di appartenenza senza eguali, sono riusciti ad attribuire un cognome ad un numero preciso.

Il numero 3, quello sulla schiena del terzino del Milan, di uno dei migliori al mondo di tutti i tempi, di un italiano conosciuto in ogni angolo del pianeta.

Maldini e il suo sguardo senza l’ausilio di interpretazioni, distributore di amore vero per soli due colori, quelli dell’AC Milan.

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