20 aprile 1986: Roma-Lecce 2 a 3
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20 aprile 1986, una sconfitta inaspettata: la Roma cade con il Lecce e dice addio allo Scudetto

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La clamorosa vittoria della Roma contro il Lecce

Il più incredibile dei risultati; una possibile, imprevedibile e, sino a pochi mesi prima, insperata impresa calcistica viene gettata al vento quando nessuno lo avrebbe immaginato. Questo è Roma – Lecce del 20 aprile 1986. Pensare che il campionato 1985 – 1986 stava per concludersi quasi prima di entrare nel vivo. Una partita è importante nella cronologia di quella stagione, a tal punto da incidere sulla storia degli anni a venire. Si tratta del match del 3 novembre del 1985, Napoli-Juventus.

Siamo alla nona giornata di andata di un campionato che sembra che la Juve stia letteralmente ammazzando. Nelle prime otto giornate i bianconeri non hanno mai segnato il passo, solo vittorie e nessun punto lasciato per strada, dando l’impressione di costituire un’autentica schiacciasassi che non dà scampo a nessun avversario: mai era stata registrata una simile lunga striscia di vittorie consecutive iniziali in un campionato a 16 squadre. Pioggia battente su un San Paolo stracolmo di spettatori,  come sempre accade quando arriva la Vecchia Signora. Il Napoli tiene botta alla capolista, creandole non poche difficoltà dal punto di vista tattico, anche se manca quel guizzo che possa rompere l’equilibrio.

Al 72’ viene fischiato, in favore dei padroni di casa, una punizione a due dentro l’area di rigore juventina, in posizione laterale rispetto allo specchio della porta difesa da Stefano Tacconi. La barriera è piazzata in modo tale da coprire il primo palo e sembra far dormire sogni tranquilli all’estremo difensore bianconero, certo che sarebbe fisicamente impossibile per il battitore avversario indirizzare la sfera su quel lato e, dunque, preoccupato più che altro di coprire con la propria posizione l’altro fronte. Per tutti sarebbe impossibile, o meglio per i comuni mortali. Non per Diego, capace di stravolgere le leggi della fisica con quel mancino fatato che si ritrova.

Dopo aver suggerito di suolare appena il pallone a Eraldo Pecci, forse in quella circostanza neanche lui tanto convinto delle capacità balistiche del suo capitano anche per la pesantezza del campo, ormai reso quasi impraticabile dalla pioggia battente, Maradona lascia partire un tiro magico che disegna una traiettoria inimmaginabile e manda la sfera a infilarsi all’incrocio dei pali, laddove il buon Tacconi mai avrebbe pensato fosse possibile piazzarla. Nella sua semplicità, un gol da altro pianeta. Ancora oggi i suoi compagni di squadra e tutti gli amanti del calcio si chiedono come ci sia riuscito. Del resto, forse, neanche gli scienziati riuscirebbero a spiegarlo. Lo stadio esplode in una gioia incredula, è in totale estasi. La Juve deve arrendersi alla prodezza del pibe de oro, perde partita e imbattibilità.

Quella vittoria, peraltro, si rivelerà fondamentale per i destini del Napoli degli anni a venire. La formazione partenopea supera una Juve fino ad allora apparsa invincibile e si libera di un peso mentale di quintali o tonnellate di piombo. Si prende coscienza che con quel Maradona niente è impossibile e che anche la Vecchia Signora è battibile. Il Napoli rimuove quel condizionamento psicologico che in altri anni era stato decisivo in senso negativo per il compimento dell’ultimo passo che potesse condurre allo scudetto. Adesso manca solo che attorno a Maradona ci sia una vera squadra e i giocatori giusti per coronare il sogno. Allodi e Bianchi sono nella città del Golfo per provvedere al riguardo. Lo scudetto della stagione 1986-87 il Napoli lo inizia a vincere con quella punizione da marziani di Maradona a danno della Juve.

È lì che ha inizio il grande sogno partenopeo, poi concretizzato con lo scudetto nella stagione successiva. Ma, intanto, il campionato 1985 – 86 è tutto da giocare. La Roma, al secondo anno sotto la guida di Eriksson, inizialmente sembra ripercorrere il deludente cammino dell’anno precedente. La squadra è orfana di Falcao, ma il parco stranieri era composto dal neoacquisto Boniek e da Cerezo. Quindi, ottimale. Viene acquistato Manuel Gerolin, rientrano alla base Desideri e Tovalieri.

La squadra non appare male. Nell’ambiente non manca chi è fiducioso che la compagine giallorossa sia molto migliorata rispetto all’anno precedente e che, quindi, possa condurre una stagione di alto livello. I nuovi arrivati dovrebbero assicurare quella velocità di manovra di cui si era registrata carenza l’anno prima. A dire la verità, le partite precampionato e quelle iniziali di Coppa Italia non sempre erano stati esaltanti e qua e qualche scintilla tra questo o quel giocatore e il tecnico Eriksson non sarebbe mancata. Il campionato iniziava, come accennato, con l’exploit della Juve, vincitrice per 8 turni.

Ma poi la Vecchia Signora planava ad altezze più normali. La Roma nel girone d’andata non lasciava presagire egregie cose. La squadra giallorossa procedeva a corrente alternata: bella vittoria a Bergamo con un buon contropiede, buona riconferma con l’Udinese, ma secca sconfitta a Bari e pareggio senza infamia e senza lode a Napoli. Convincente vittoria contro il Torino e brutto stop ad Avellino, campo all’epoca ostico ai romani, dove i giocatori ospiti davano segnali preoccupanti di contrasti intestini con battibecchi pesanti tra di loro. Sufficiente vittoria contro la Fiorentina, ma velenosa sconfitta in casa Inter. Le acque si calmano temporaneamente battendo in casa il Verona, campione d’Italia uscente. Ma poi trasferta a Torino e inequivocabile sconfitta al cospetto dei bianconeri di Trapattoni.

Seguono due punti casalinghi a danno del Milan, ma poi resa a Genova di fronte alla Sampdoria. La Roma è quanto meno poco regolare e va a scatti: piega il Pisa e poi va a vincere la Lecce in maniera netta con 3 gol di scarto. Il girone d’andata si chiude con un non esaltante  pareggio casalingo davanti a buon Como, partito male, ma da novembre ’85 rivitalizzato dalla gestione tecnica di Rino Marchesi, già anni prima segnalatosi ad Avellino e Napoli. Al giro di boa la Roma è distaccata dalla Juve da ben 8 lunghezze (e alla vittoria si assegnavano 2 punti).

Con il ritorno la squadra capitolina si trasforma e diventa briosa, efficace, quasi da apparire inarrestabile con schemi interpretati a meraviglia e, dunque, redditizi: 6 vittorie di seguito fanno sostanza, punti e convincono gli addetti ai lavori che ormai le idee di Eriksson siano state assimilate sufficientemente sia in fase offensiva che di contenimento. Dopo il pareggio a Firenze, bella vittoria ai danni dell’Inter. I giallorossi danno spettacolo.

Ma subito dopo una brutta sconfitta a Verona per 3 a 2 richiama tutti alla realtà. Il turno successivo presenta la partita Roma – Juventus, ormai decisiva, con i primi dietro di 5 lunghezze. Se la Juve esce indenne dalla capitale, i giochi sono virtualmente fatti. Ma la Roma surclassa la Juve come poche volte era capitato in quegli anni. La supremazia giallorossa è totale e il 3 a 0 finale può sembrare risultato stretto ai padroni di casa. Adesso 3 punti di distacco a 5 giornate dal termine. Ma la Roma è gasata e la Juve appare usurata e appannata.

Sulle ali dell’entusiasmo, quasi spensierato e goliardico, la squadra capitolina vince in casa del Milan, batte a domicilio la Sampdoria, spadroneggia a Pisa. Intanto la Juve, dopo aver battuto l’Inter, perde a Firenze e pareggia con la Sampdoria. A due giornate dalla conclusione del campionato Juve e Roma sono appaiate a 41 punti, ma i bianconeri sembrano se non in crisi, almeno in difficoltà, mentre la Roma sprizza salute da tutte le parti e forse può solo rammaricarsi del punto casalingo perso mesi prima con il Como o di qualche sconfitta in trasferta magari evitabile.

Ma la Roma in 13 partite ha recuperato 8 punti. Un prodigio. Una cosa del genere negli anni precedenti (ma in quel caso si era trattato di 5 punti) era successo solo nella stagione 1975 – 76. In quel caso il Torino tolse dalle mani della Juve uno scudetto che pareva vinto. Ma quella era una Juventus lacerata da recriminazioni e polemiche interne roventi (vedere soprattutto il caso Anastasi), a fronte di cui il tecnico Carlo Parola non riuscì a mediare e ovviare.

Nel caso di specie del 1985 –  86 la Juve non è dilaniata da confronti interni: sta finendo un ciclo, glorioso quanto si vuole, e le forze naturalmente vanno scemando. Questo mentre la Roma di Eriksson appare potenza nuova, fresca, crescente, e gli schemi del tecnico svedese affascinano, divertono e riescono particolarmente propizi, persino congeniali. Inoltre, il calendario sembra favorevole ai giallorossi, che devono affrontare il Lecce, esordiente assoluto in “A” da tempo retrocesso, e il tranquillo Como, allorché la Juve deve vedersela con l’ostico Milan (ostico anche o soprattutto per tradizione) e il Lecce.

Le previsioni, anche per lo stato di forma comparato tra le due contendenti, parlano a favore della Roma. L’opinione pubblica pensa che il club capitolino possa conquistare 4 punti agevolmente o quasi nelle ultime due giornate. Si nutrono molti dubbi, quindi, che la Juve possa racimolarli tutti per intero e, comunque, in eventuale prospettiva spareggio si dà per favorita la compagine capitolina. Sembra essersi capovolta la prospettiva del campionato 1980 – 81 quando la Roma era rimasta per buona parte del campionato in testa (senza, tuttavia, mai poter vantare 8 punti di distacco sugli juventini, anzi, assestandosi il campionato, in linea di massima non si era andati oltre i 2 punti) ed era stata raggiunta e superata dai bianconeri al traguardo.

Ma la Juve ha dalla propria parte la mentalità e l’abitudine a vincere, anche quando non è sulla carta favorita, come occorso nel 1967 o nel 1973. Inoltre, Trapattoni aveva ampiamente dimostrato di essere specialista di volate scudetto al cardiopalmo, avendo trionfato nel 1977 (da esordiente), nel 1981 e nel 1982 (ma in quei casi partiva da dietro e, quindi, non era stato agganciato e ripreso dopo una fuga).

E questo a parte il corollario di vittorie anche a livello internazionale che la Juve poteva esibire in quegli ultimi anni, annoverando buona parte dei campioni del mondo del Mundial spagnolo e Platini. E forse anche grazie a questa tradizione e a questa esperienza Trapattoni riesce a trarre da una squadra stanca quelle energie nervose residue tali, da un lato, da non sentire la fatica mentale per essere stati raggiunti in testa alla classifica dopo una storica rimonta, e tali, dall’altro, da poter superare, malgrado la spossatezza fisica, sia il Milan che il Lecce, raggranellando 45 punti finali. La Roma, dal canto suo, considera la sfida con il Lecce come già superata.

Una formalità, quasi una seccatura del calendario, tale da indurre il pur compassato presidente Viola a un prematuro giro di campo prima che iniziasse la sfida con i salentini. Del resto, quest’ultimi erano non solo retrocessi da settimane ma anche, in senso lato “inesperti” perché al primo anno di “A”. Ma forse questa sorta di mancanza di riguardo induce la squadra pugliese a una partita vibrante, senza nulla concedere alla compagine di casa. Così la spensierata verve agonistica giallorossa diventava euforia mista anche a calcolo opportunistico in vista di un preventivabile spareggio (vedasi il mancato impiego da subito di Bruno Conti).

Solo l’allenatore svedese si permetteva di osservare di non fidarsi del Lecce, il quale, ricordo la stampa sportiva di quella settimana, si recava a Roma tranquillo e senza tralasciare la possibilità di tentare colpacci. Sessantacinquemila spettatori fanno da cornice smisurata per un testa-coda calcistico. I romanisti sono convinti di avere i due punti in tasca. Segna la Roma dopo sei minuti con Graziani e la gara sembra in  discesa. La Roma si illude di aver chiuso il conto. Ma l’ex Di Chiara, forse con qualche conto da saldare, pareggia. Si scatena l’argentino Barbas e i leccesi passano sull’1 – 3. La Roma si getta all’attacco, ma forse non aver messo nel conto l’impossibile toglie qualcosa ai giallorossi. La squadra di Eriksson è volenterosa, impulsiva ed insistente, ma non efficace come in altre occasioni.

Pruzzo accorcia le distanze, ma oltre non si va. La porta leccese, del resto, è stregata. Il secondo portiere salentino Negretti, subentrato al titolare  Ciucci, infortunatosi dopo una ventina di minuti, fa la partita della vita. Il destino si è messo contro alla Roma. In questa però i giallorossi hanno sbagliato quanto meno l’approccio al match, perdendo poi di forza mentale con il trascorrere dei minuti. Un po’ come era capitato alla Fiorentina a Cagliari il 16 maggio 1982. In questi casi la Juve ha una marcia in più, data dall’abitudine a vincere. Comunque, come nel 1981, la Roma avrebbe parzialmente mitigato la delusione per il mancato scudetto vincendo la Coppa Italia.

GLIEROIDELCALCIO.COM (Francesco Zagami)

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Nato nel 1971 a San Gavino Monreale. Da sempre interessato a temi calcistici e storici. Fondamentalmente autodidatta. All'attivo 3 libri. Un quarto testo, relativo alla Storia della Repubblica sociale Italiana in corso di pubblicazione. Ora al lavoro per un libro relativo al mondo arabo e per uno riguardante il periodo d'oro della Roma di Liedholm 1979-1984.

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