Anconetani, il “Presidentissimo” del Pisa che sfidava i potenti del calcio con intuito, passione e… scaramanzia - Gli Eroi del Calcio
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Anconetani, il “Presidentissimo” del Pisa che sfidava i potenti del calcio con intuito, passione e… scaramanzia

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Chiamarlo “Presidente” era riduttivo. Per tutti era il “Presidentissimo”. Tanto che bastò una sua frase per consacrarlo tra i personaggi che più hanno caratterizzato il calcio italiano a cavallo tra i ’70 e gli ’80. «In Italia comanda l’avvocato Agnelli, ma qui, a Pisa, comando io».

Romeo Anconetani per il grande pubblico era il vulcanico e pittoresco presidente del Pisa degli anni Ottanta, con quella voce stridula che ti trapanava le orecchie, specie quando davanti alle telecamere difendeva a spada tratta la sua squadra dai presunti soprusi del palazzo del calcio. L’ambiente in città era caldo e ad infuocarlo ci pensava lui, in grado di farsi amare dal suo popolo in maniera incondizionata. Ma per capire chi era Romeo Anconetani – classe 1922, triestino d’origine che ha fatto della Toscana la sua seconda patria – è necessario fare un passo indietro. Prima di approdare a Pisa era stato dirigente sportivo dell’Empoli e del Prato. Accusato di illecito sportivo, fu radiato a vita dalla FIGC. Ma aveva passione e competenza. Così agli albori degli anni ’60 si inventò prima consulente, e poi mediatore calcistico sfruttando una licenza della Camera di Commercio di Pisa. In quella veste cominciò a bazzicare il Gallia di Milano, ai tempi sede del calciomercato, guadagnandosi ben presto l’appellativo di “mister 5%”, la misura della sua provvigione. La sua forza, oltre al fiuto e all’intuito, era una fitta rete di osservatori che gli garantiva le informazioni giuste. Fu il primo in Italia ad introdurre la prevendita dei biglietti ai botteghini e ad organizzare treni speciali per lo spostamento dei tifosi che andava personalmente ad accogliere nelle stazioni d’arrivo. Sul finire degli anni ’70 acquistò i toscani per 300 milioni («La società era in liquidazione. Alcuni amici sono venuti a cercarmi a casa. All’inizio ho preso la cosa come una barzelletta…») e, con l’amnistia del 1982 dopo l’epica vittoria del Mundial spagnolo, fu anche cancellata la vecchia punizione. Ne diventò così presidente a tutti gli effetti, incarico che recepì dal figlio Adolfo, e la partenza fu entusiasmante. La stagione 1982/83 coincide infatti con il ritorno dei nerazzurri in serie A. In panchina c’è Luis Vinicio, ma la vera anima di quella squadra, di cui è il catalizzatore delle emozioni dei tifosi, è lui. Dopo quattro giornate il Pisa si trova sorprendentemente in testa alla classifica insieme alla Roma e alla Sampdoria (sconfitta all’Arena Garibaldi per 3-2 grazie al gol di Todesco e alla doppietta del danese Klaus Berggreen – acquistato per 270 milioni e poi rivenduto alla Roma, tre anni dopo, per 4 miliardi). Una sensazione assaporata per sette giorni.

Verve naïf, Romeo vive il calcio con una passionalità viscerale. E la città ricambia, seguendolo in ogni circostanza, anche in quelle battaglie contro i potenti della serie A. Tempra del combattente, non indietreggiava davanti a nulla. Se c’era da dare una mano alla squadra in difficoltà, scendeva sul campo dell’Arena Garibaldi e prima del fischio d’inizio faceva spargere chili di sale propiziatorio di buona sorte. Anche fino a 26 kg. E se non era sufficiente, seguiva la processione al Santuario di Montenero, talvolta a piedi scalzi. Riti scaramantici al limite dell’ossessione rimasti nell’immaginario collettivo al punto da ispirare il regista Sergio Martino per delineare il personaggio di mister Oronzo Canà (Lino Banfi), ne L’allenatore nel pallone. Un giorno a Pescia si ruppe un bicchiere mentre calciatori e staff stavano pranzando; la partita dopo il Pisa vinse e Romeo ogni settimana pretese che si spaccasse un bicchiere a tavola prima del match. La cosa durò 2-3 mesi, poi finì perché la squadra cominciò a perdere. Nei ritiri di Montecatini s’improvvisava cameriere servendo ai tavoli e a dicembre si travestiva da Babbo Natale e distribuiva regali ai giocatori, salvo poi scalarglieli dai premi. Unico. Maniacale il suo perfezionismo, ma che dà i suoi frutti e viene portato ad esempio, come la pretesa per i giocatori di indossare la divisa societaria in occasione delle trasferte, il rispetto rigoroso degli orari, l’obbligo per tutti di assistere alla Santa Messa. Uomo molto religioso, si autodefinì “vescovo mancato”.

Ma indimenticabili restano i suoi siparietti con i giornalisti, favoriti dalla sua dimestichezza con la lingua italiana. E se proprio doveva dare una dritta, preferiva affidarsi ai cronisti locali, forse per “solidarietà” verso quel mondo di cui egli stesso aveva fatto parte (iscritto all’elenco “pubblicisti”, per un periodo aveva scritto di calcio sul Giornale del Mattino di Firenze). Quando gli domandano come riesce a fare il presidente a tempo pieno, senza avere un’attività né grossi sponsor, la risposta è poderosa: «Bisogna essere intelligenti e forti come sono io». E quando un cronista gli fa notare che dopo l’ennesima sconfitta la squadra è precipitata all’ultimo posto, la replica straborda di orgoglio e “furore paterno”: «Per ora! Il campionato finisce il 25 giugno quando io sarò perlomeno quint’ultimo, e allora le manderò una cartolina che si attaccherà sul letto». Burrascoso anche il rapporto con gli allenatori: in 16 anni ne esonera in tutto 22, ma a volte si pentiva e così alcuni venivano richiamati.

Tra i vari meriti anche quello di aver creato l’Archivio Anconetani (avvalendosi di una rete di persone fidate, calcolando le medie dei voti assegnati ai giocatori dai giornali di tutto il mondo, compilò un vasto archivio con schede dettagliate su oltre 40.000 calciatori), ma, soprattutto, di aver regalato momenti irripetibili ai propri tifosi, spesso troppo lontani dai palcoscenici più prestigiosi.

In totale, fino al 1994, quando la società fallì, con la sua reggenza i nerazzurri disputeranno 6 campionati nella massima serie, in un’altalena continua di retrocessioni e promozioni, di acquisti prestigiosi (l’olandese Wim Kieft, scarpa d’oro con l’Ajax nel 1982, il brasiliano Carlos Dunga e l’argentino Diego Simeone) o meteore che hanno lasciato traccia più che altro sugli album Panini (l’uruguaiano Jorge Caraballo e il belga Francis Severeyns, asciutto e baffuto attaccante che non riuscì mai a segnare in 26 apparizioni di campionato).

E chi sbrigativamente lo bollava come “folcloristico” non lo offendeva di certo. Solo una volta, forse infastidito dal piglio eccessivamente ironico dell’interlocutore, Romeo se n’ebbe a male: «Oggi sghignazzate pure, ma quando non ci saranno più presidenti come il sottoscritto vedrete che fine farà il calcio». Ci aveva visto lungo. Come sempre.

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Giornalista professionista. Cronista-inviato del quotidiano "La Voce di Mantova" dal 1993, già corrispondente di Libero fino al 2010 e collaboratore di altri quotidiani nazionali. Opinionista sportivo sulle emittenti locali. Appassionato di calcio anni '80 («uno sport completamente diverso in un'Italia diversa») e soprattutto del Mondiale di Spagna dell’82 («inarrivabile per l'intensità e l'atmosfera magica che ha saputo trasmettere, capace sempre di emozionare ogni volta che scorrono le immagini di quella che è stata una storia sportiva, umana e agonistica difficilmente ripetibile»). Diversi gli idoli sportivi, ma se deve scegliere tre nomi non ha dubbi: Franco Baresi, Marco Van Basten e Ivan Lendl.

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